20 settembre 2011

DA NON LUOGHI A SPAZI PUBBLICI


Prendo lo spunto dalle immagini che appaiono sulle prime pagine dell’ultimo numero di ArcipelagoMilano e che mostrano “non luoghi milanesi” abbinati a un quadro di Gauguin. Mi è subito apparso evidente il contrasto fra gli uni e l’altro, la disattenzione e mancanza di cura da una parte e la cura e significatività dall’altra. Qualche amministra-zione tempo fa suggeriva appunto di usare l’arte per arricchire i non luoghi e trasformarli così in luoghi d’arte. Ma mi sorge spontanea la domanda: quale arte per la città? La città come luogo delle relazioni è sempre stata il campo di applicazione dell’arte. Da sempre infatti ha avuto committenti che avevano interesse a essere rappresentati nella città come luogo dei poteri. Forse è solo recentemente che ci siamo privati del suo apporto soprattutto nelle aree periferiche, vuoi per inettitudine degli amministratori e vuoi per snobismo di certa avanguardia.

Tuttavia a Milano, anche in periodi recenti, l’esperimento di coinvolgere gli artisti nel tentativo di coprire le brutture dell’ambiente urbano contemporaneo vi è stato. Ci si ricordi della trovata dell’amministrazione comunale, di circa trent’anni fa, di far coprire dai maggiori artisti d’avanguardia le orribili pareti cieche dei palazzi tirati su in qualche modo durante la ricostruzione del dopoguerra e negli anni sessanta. Ancora oggi ve n’è qualche patetica traccia ma per la maggior parte sono state oscurate, vuoi dalla mancanza di manutenzione vuoi dai sopralzi successivi. Ancora si faccia riferimento alle imbellettature di viadotti e manufatti giudicati brutti in occasione dei mondiali di calcio, come la galleria sotto la ferrovia sulla strada per l’aeroporto Forlanini e, più recentemente, si rimembri l'”Alba di luce”, costata due miliardi di vecchie lire, nella piazza della Stazione Centrale che ora giace in un deposito di robivecchi. ma anche il discusso “Ago e Filo” di piazza Cadorna.

Ma il punto è: questa arte può servire alla città e alla sua qualità da quando ha smesso di avere come fine la bellezza? Infatti vi è sempre stato il tentativo di usare l’arte per fare spettacolo e coprire i veri problemi ma ultimamente è diventata mostruosità (dal latino monstrum, segno grande) per il potere e i media. Del resto certa arte contemporanea è andata a nozze con l’espansione dei mezzi di comunicazione, anzi in alcuni casi è diventata solo comunicazione di messaggi invadenti e irritanti, il più delle volte compresi da pochi specialisti. L’aspetto provocatorio di quest’ultima, che Schiller definiva come l’attività che fa da sé le sue regole, insito nella funzione che si è data l’arte moderna, ha preso la mano in certe frange contemporanee inopportunamente definite d’avanguardia.

L’avanguardia storica infatti era ben altra cosa! Aveva la finalità di ribellarsi all’accademismo, cioè un modo ripetitivo e acritico, asservito al potere borghese, di fare arte, quindi privo di autenticità e sincerità che ne stravolgeva il significato e la funzione. Oggi invece il nuovo accademismo è proprio, mi si passi il paradosso, la spettacolarizzazione della provocazione. Nella cultura dell’immagine e della comunicazione di massa si è creata una “enclave” affaristico – culturale che, fuori da ogni contatto con la tradizionale funzione sociale dell’arte, che poi era quella di introdurre la creatività – bellezza nel quotidiano, ovvero senza alcun rispetto per la vita ma in nome di un liberismo mercantile, produce orride rappresentazioni, che chiama “performance”, con il solo scopo di stupire e di far parlare i media, se le giudica come opere geniali e se le colleziona.

A queste schegge impazzite della cultura contemporanea ovviamente partecipano banche, gruppi affaristici, musei e altri poteri economici che hanno come unico obiettivo il denaro. Ora tutto questo per dire cosa? Che la città non ha bisogno di quest’arte per essere vitalizzata, e i non luoghi non diventeranno certo luoghi per la presenza di queste opere, ma essa ha bisogno invece che si introduca creatività, nel senso di rispetto per la vita e la sua complessità, funzioni lente, assenza di traffico congestionato e magari un po’ di natura, mescolanza di funzioni che impediscano vuoti di vita nelle periferie dormitorio. Per l’architettura spettacolo valgono gli stessi argomenti. Paolo Soleri chiama benevolmente Orchidee queste costruzioni “fiori all’occhiello” a sottolineare che sono elementi singoli staccati dal contesto. Qualcun altro chiama sindrome di Bilbao, in onore a Paul Getty, questa tendenza a pretendere di risolvere i problemi della città con architetture firmate. Monumenti appunto alla presunzione dei nuovi e vecchi poteri ma che nulla hanno a che fare con la vita.

Il problema quindi non è tanto quello di usare l’arte per rivitalizzare la città, se l’arte esalta tanatos non possiamo pretendere che ci dia eros, ma quello se mai di ritrovare la bellezza come finalità della città e quindi anche dell’arte. James Hillman afferma in termini analitici che la grande repressione del secolo scorso è stata quella del desiderio di bellezza, schiacciato dalla tendenza al titanismo, e che invece, parafrasando Schumacher, “piccolo è bello”, ovviamente nel senso di umano e umile, termini che traggono il semantema da humus = terra. A fronte del gigantismo della nostra civiltà che si manifesta in tutti i settori, dai media all’economia e alla tecnologia, abbiamo prodotto anche un’arte che ha perduto il senso dei propri limiti e della sua funzione che esalta il mostruoso e l’orrido. Quest’arte è bene che se ne stia lontana dalla città.

 

Maurizio Spada



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