20 settembre 2011

MOSCHEE: CHITI, COSÌ NON VA


Il problema immigrazione esiste non perché la destra teme l’Eurabia, ma perché la cultura politica diffusa ragiona in termini di compromessi soppesando la consistenza tra gruppi. Così trascura le interrelazioni reali tra i diversi individui nell’ambito delle leggi e lascia marcire le cose. In un articolo su ArcipelagoMilano, l'”Islam e la paura delle moschee“, il Vice Presidente del Senato Chiti ha svolto un’analisi circa il disagio in Europa per il sopravvenire di milioni di immigrati con diverse concezioni culturali e una differente religione. E ha formulato proposte operative. In riferimento all’Italia, faccio alcuni rilievi politici. La necessità di accogliere i non comunitari consegue al mondo aperto globalizzato. Dunque l’approccio non può essere l’acquietare un gruppo etnico o l’esaltata idiosincrasia dei nativi. L’immigrazione dovrebbe essere affrontata irrobustendo le basi del diritto in chiave di libertà dei rapporti tra chi vive in Italia. In altre parole, essere concepita come aspetto ordinario del convivere, che è sempre tra diversi e affronta sempre questioni di conflitti democratici.

La funzione pubblica deve perciò svolgere il medesimo genere di compiti. Favorire la libera espressione di ciascuno, assicurare l’applicazione delle norme, far funzionare la giustizia civile e penale, vigilare perché vi siano libertà economica privata e un degno livello di condizioni di vita. Sapendo che le carenze della funzione pubblica hanno un impatto complessivo maggiore nel caso dei problemi dell’immigrazione (che sono insieme più ancestrali e più immediati) e dunque richiedono un impegno ancora superiore. Ciò non significa (la tendenza dell’articolo) assegnare alla funzione pubblica finalità che non le spettano. Farlo ripropone logiche compromissorie inadatte ad affrontare i problemi con efficacia civile.

Nell’ordine espositivo dell’articolo, innanzitutto si rileva che la funzione pubblica è organizzare la convivenza tra diversi, non seminare “il germe del cambiamento profondo dell’islam“. All’interno delle religioni valgono solo i rapporti tra i rispettivi credenti, poiché la separazione Stato religioni in Europa è il fecondo frutto dei conflitti nei secoli. In secondo luogo, la funzione pubblica consiste nell’individuare le condizioni ambientali per la convivenza legale tra diversi, non ha il fine di imporre ai diversi politiche di integrazione, personali e culturali. Se la convivenza funzionerà civilmente, nei tempi lunghi l’integrazione potrà anche venire, ma non mutarsi in obbligo. In terzo luogo, la funzione pubblica si occupa della convivenza negli aspetti di vita civile ed è fisiologicamente del tutto estranea all’incontro tra le religioni.

Sono punti essenziali che fanno da bussola. Viceversa l’articolo si rammarica che “lo Stato centrale sia incapace d’impostare una politica che fissi le regole del pluralismo religioso” per evitare che “le moschee vengano autorizzate solamente attraverso le valutazioni di ordine territoriale e urbanistico“. Qui traspare con chiarezza la propensione alla logica concordataria, cioè opposta a quella della separazione Stato religioni. In cui lo Stato è tenuto ad assicurare la libertà religiosa individuale nel pubblico e nel privato, non a dettare condizioni di esercizio dei culti o a favorire il loro insediarsi. I luoghi di culto (oggi la questione moschee) sono un diritto civile per chi li voglia realizzare nel rispetto urbanistico e disponendo dei mezzi necessari. Lo Stato non deve interferire, neppure per ricavarne riconoscimenti.

Come il pretendere di imporre, per essere imam, il requisito della cittadinanza italiana e del parlare italiano. Confonde la necessità di una efficace politica degli ingressi in Italia e della durata dei visti, con interventi statalisti di tipo invasivo nell’esercizio delle religioni (per di più in sostanza inefficaci verso i fondamentalismi). Insomma, se in Italia è crescente la presenza di non comunitari e aumenta la percentuale di credenti musulmani, la risposta non è vagheggiare il nuovo cittadino modello pluralista, ma svolgere correttamente la funzione pubblica per favorire oggi la convivenza pluralista tra diversi quali sono.

A tale fine, è positivo che l’articolo si schieri tra i sostenitori di due punti importanti: introdurre l’insegnamento di storia delle religioni in sostituzione dell’attuale ora confessionale e reintrodurre la teologia nell’università statale. Perché ciò è coerente alla logica del pluralismo separatista. Non lo sono invece, se riferiti alla funzione pubblica, ulteriori obiettivi dell’articolo: ” “italianizzare” la figura dell’imam, anche creando una scuola islamica, in cui insegnare il Corano in lingua italiana“. Istituzioni che siano laiche per davvero, non promuovono (e non bruciano) libri religiosi. Eppure, l’articolo definisce quegli obiettivi “una proposta coerente con una visione di integrazione inclusiva. Non esiste un’alternativa valida a politiche di inclusione e di integrazione“. Vale a dire una dichiarata propensione concordataria per regolare la convivenza. Modalità che, in base all’esperienza storica, non funziona, tanto meno per l’immigrazione musulmana che non ha gerarchie. L’alternativa c’è. E’ la convivenza secondo regole imperniate sulla libertà dell’individuo e sul suo spirito critico, al posto del conformismo pubblico politicamente corretto.

 

Raffaello Morelli



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