6 settembre 2011

RIDISEGNARE MILANO


La vittoria elettorale di Giuliano Pisapia e della coalizione che l’ha sostenuto, ha coinciso con un momento felice nella storia delle consultazioni amministrative, ma anche con un momento di profonda crisi del sistema politico italiano e della nazione italiana nel suo insieme. Come dice il saggio cinese della vulgata cosmopolitana i momenti di crisi sono anche momenti di opportunità, ma, sempre per rimanere all’interno della medesima mitologia, una antica maledizione metem-psicotica cinese augura al nemico di poter rinascere in tempi interessanti. E nessuno può negare che il nostro sia un periodo interessante, anche se talvolta l’interesse sconfina nell’orrore quando si scopre che i nostri destini sono appesi alle decisioni di un signore in shorts verdi con la faccia sempre più simile alla creatura che prende il nome dalle sue prodezze legislative.

Ma il grande successo porta con sé molti problemi: se le aspettative sono grandi, le delusioni possono essere grandissime. E questa è una componente, se vogliamo chiamarla così, “psicologica” o “emotiva” ma tutt’altro che immateriale o irrilevante: ci dovrebbe essere da qualche parte un termometro appeso che misura lo stato delle aspettative e della loro soddisfazione. Il che non significa affatto cedere al solo miraggio del consenso: ci sono scelte impopolari che possono, anzi devono essere prese con coraggio se sono per il bene comune e molte aspettative di chi ha votato per questa coalizione vanno nel senso di auspicare scelte coraggiose e giuste piuttosto che scelte popolari. Ma al di là di questa preoccupazione diciamo così metodologica, la vittoria milanese, con le altre di questa tornata, pone un problema di fondo che ha valore per tutto il paese.

La ricostruzione di un rapporto genuino, cioè veritiero ed efficiente tra la società comunale, l’amministrazione pubblica e il decisore politico. In particolare il rapporto tra politica e amministrazione, va rivisto radicalmente come dimostrano anche le recenti tristi vicende che hanno investito amministratori importanti dei partiti di sinistra, uno dei quali avrebbe facilmente potuto essere candidato a Sindaco di Milano per la coalizione antimorattiana. Non possiamo continuare a passare da uno scandalo all’altro, lasciando che nell’intermezzo le pratiche corruttive vengano semplicemente ridotte temporaneamente a bassa intensità, accumulando cattive pratiche fino alla prossima esplosione. Sempre più ci si rende conto che i costi illegali della politica vanno iscritti molto in alto nella lista dei problemi prioritari del nostro sistema politico, ma questa classe dirigente, sia a livello nazionale che a livello locale, non vuole, proprio non vuole affrontare e risolvere il problema: ed è facile capire che se chi comanda non vuole affrontare il problema tutti gli altri evadono quel che possono, ma alcuni possono più degli altri e ogni atto amministrativo diventa una occasione per spolpare le risorse pubbliche.

Può sembrare che questo discorso sia fuori tema rispetto al ridisegnare Milano, ma non lo è: è inutile che ci mettiamo a tracciare i migliori disegnini delle municipalità, se poi alla fine il risultato non è altro che aprire una ulteriore occasione di parassitismo da parte di decisori sub-locali: ridisegnare Milano deve (e sottolineo la parola) ridisegnare la morfologia sociale e fisica della città, ma anche ridisegnare il modo di fare politica, è un impegno di Pisapia in persona, garantito dalla sua coalizione ed è il terreno di sfida principale per tutti noi. Sappiamo benissimo che la corruzione e la confusione sono favorite da meccanismi istituzionali e costituzionali che non possono essere corretti solo a livello municipale, ma non possiamo aspettare la prossima Bicamerale e soprattutto abbiamo capito (e questo è uno dei significati centrali della mobilitazione di questi mesi) che con l’attuale classe dominante (ma con la responsabilità, anche culturale, di tutte le forze politiche, ovviamente in gradi diversi) la procedura top-down, non funziona. Se aspettiamo la prossima riforma istituzionale, campa cavallo: neppure l’urgenza della crisi e le vergogne emerse durante la discussione della contro-manovra, sono riuscite a smuovere il terreno.

Occorre quindi partire dal basso mettendo a punto meccanismi e buone pratiche generalizzabili ed estremamente efficaci per rompere il terribile meccanismo della corruzione. Solo così si riuscirà a dare una speranza anche alle migliaia di militanti e volontari che lavorano disinteressatamente per la res publica. Si può fare, ma occorre che questo problema sia letteralmente in cima a tutti i membri della giunta, prima ancora dei problemi urgenti come il bilancio, che peraltro si gioverà enormemente di una politica meno corrotta. Questo tema non è un optional, deve piuttosto diventare un assillo per gli eletti e materia di profonda riflessione per tutti noi, dobbiamo trovare una soluzione se non vogliamo degradare a paese quarto mondo.

Identità ed efficienza. La definizione di un ambito geografico –amministrativo è una delle operazioni più complesse che si possano immaginare. I confini sono sempre problematici soprattutto quando calano come gabbie di vetro su realtà fisiche con scarse cesure visibili che possano guidare la nostra capacità di razionalizzazione. I confini magari non si vedono, ma ognuno di noi applica le proprie incertezze per il futuro sulla collocazione al di qui o al di là di una linea immaginaria. Ne riceviamo una verifica cogente dal dibattito in corso proprio in questa estate 2011, quando in seguito alle minacce, poi ritirate, della manovra, in tutto il paese comuni e gruppi di comuni si sono attivati per ridisegnare comuni confini, in risposta a criteri puramente quantitativi e largamente arbitrari. Va subito detto che per la definizione di una circoscrizione amministrativa il criterio della quantità di popolazione interessata è tutt’altro che irrilevante, perché ha a che vedere con le economie di scala dei servizi, soprattutto di quelli alle persone, e quindi con l’efficienza amministrativa. Ma deve essere inserito in un contesto: ci possono essere sottocomunità urbane che hanno una loro storia sufficiente a garantire una loro efficacia amministrativa anche se da un punto di vista puramente “aziendalistico” sono troppo piccole.

Milano non è una città fortemente differenziata e lo è diventata sempre meno. Ci sono sì “luoghi” tradizionali, in genere i comuni aggregati alla città durante il fascismo, Affori, Greco, Baggio eccetera, oppure i grandi interventi di edilizia popolare Gallaratese, Comasina, Forlanini eccetera oppure luoghi i cui nomi entrano nella tradizione orale popolare, Ponte Lambro, Morivione, Bovisa, Barona, Bicocca, Niguarda, Darsena spesso legati a funzioni urbane significative. Però nessuna di queste unità ha una sufficiente autonomia dimensionale o identitaria da diventare ipso facto un municipio autonomo. Occorre procedere attraverso combinazioni, che possono essere fatte solo con tre criteri, omogeneità (aggregazione di aree simili o per contro stimolazione di “mixité”) interdipendenza (aggregazione sulla base degli scambi, per esempio i trasporti o la mobilità in generale) o morfologici (grandi separazioni urbanistiche, visto che a Milano non c’è il fiume).

Originariamente le venti “zone” o “ripartizioni” create a seguito della grande ondata di decentramento partecipativo degli anni ’70, erano modellate a partire dalle 24 zone statistiche a loro volta suddivise in 144 aree di rilevazione statistica. I “bilanci sociali” elaborati dall’assessorato al decentramento sotto la spinta di Samek Ludovici tra il mandato di Tognoli e il primo di Pillitteri, rappresentarono il maggiore sforzo di organizzazione del sistema informativo del Comune a fini perequativi della spesa. Fu un progetto che oggi possiamo criticare per non essersi radicato, ma pochi sanno che i parametri di distribuzione delle risorse elaborati dal gruppo di lavoro sono per anni stati adottati formalmente dal Comune per distribuire le spese in bilancio a livello territoriale.

Comunque la divisione in zone (che precedeva il bilancio sociale) non era soddisfacente e si discusse a lungo su come riorganizzarle. Tra il 1989 e il 1990 l’ISAP avanzò una proposta alla quale avevo collaborato anche io con Ettore Rotelli, che si basava su due principi, uno l’idea di rompere il sistema concentrico, che finiva sempre per porre la Zona 1 (centro) in posizioni di maggior privilegio, due l’idea che si dovessero aggregare anche aree esterne al comune, nei casi di evidente continuità, tre che si dovessero creare dei veri sub-municipi sul modello parigino, il che implicava anche una riduzione del numero delle zone. Più o meno è questo il modello che fu poi adottato (ma mi sfugge da chi) con una variazione abbastanza ragionevole che consiste nel mantenere il centro unitario, mentre nella formulazione “talebana” del modello ISAP si insisteva simbolicamente sull’accesso di ogni zona al sagrato per evitare disparità simboliche. Durante il primo mandato Albertini, l’allora assessore Paolo del Debbio lanciò un grande e intelligente piano di riqualificazione delle periferie con vari interventi, cui collaborò anche il Dipartimento di Sociologia di UNIMIB, sia per l’analisi dei dati sia per la formazione dei “managers delle periferie” come diceva il linguaggio burocratico, cioè di due funzionari per zona che avrebbero dovuto servire da “interfaccia” con i bisogni della popolazione. Il progetto fu poi dimenticato.

Nella ripresa di interesse per un ridisegno del territorio milanese, forse si può cercare di ripercorrere questa storia caratterizzata invece da nefaste discontinuità: per fare un piccolo esempio quando ho discusso con Paolo del Debbio del progetto mi sono reso conto che l’assessore non aveva la benché minima idea della provenienza originaria della divisione per settori, per contro io non sapevo quando fosse stata adottata. Facciamo dell’innovazione senza gettare le molte conoscenze accumulate. Una forte raccomandazione: oggi l’amministrazione comunale ha a disposizione una mole di dati e una cassetta di strumenti di analisi molto sofisticati per la rappresentazione geocodificata dei dati. Si possono unire i dati socioeconomici a quelli aerofotogrammetrici per produrre rappresentazioni molto precise al fine per simulare in tempi rapidi le conseguenze di varie possibili configurazioni.

Ma per farlo bene bisogna avere molto ben chiari i presupposti: nel ridisegnare Milano cosa vogliamo ottenere? Quali sono i criteri sui quali ci vogliamo basare? Come si sceglie tra alternative valide, ma tra loro contraddittorie? Possiamo trasformare questa operazione tecnica in una grande e innovativa occasione di nuova politica? Personalmente avrei un sogno: che si potesse arrivare ad avere un grande display con le nuove municipalità e che ogni milanese potesse accedere a questo display facendosi rappresentare le più disparate caratteristiche del luogo in cui abita o in cui lavora in confronto al resto della città, non perché tutti debbano essere eguali, ma perché le differenze dovrebbero essere evidenti e spiegabili ragionevolmente e che nel display fosse possibile a chiunque inserire le proprie segnalazioni, proposte doléances, ovviamente con la mediazione di un sistema centrale di governo del sistema.

 

Guido Martinotti



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