6 settembre 2011

CONSIGLI DI ZONA TRA RIFORMA E CITTÀ METROPOLITANA


In attesa di capire che destino sarà riservato al PGT della giunta precedente, ora che con una mossa degna del miglior azzeccagarbugli è stato messo in condizioni di non nuocere (sempre che la cura non sia peggiore del male, ma mi riservo di tornare sull’argomento in un prossimo articolo), un tema di forte attualità nell’ambito del rinnovamento della macchina comunale portato avanti dall’attuale giunta è quello della riforma del Decentramento. D’altra parte nel programma elettorale di Pisapia si propone di “procede alla revisione dello Statuto del Comune, per estendere poteri e funzioni delle zone, da ridisegnare e aumentare di numero: servizi alla persona, edilizia privata, pianificazione urbanistica attuativa, manutenzioni e opere pubbliche di rilievo zonale, vigilanza di quartiere, con la conseguente attribuzione di autonomia di bilancio.” E con coerenza è stato istituito un assessorato ad hoc, quello al Decentramento.

Ma andiamo per gradi e vediamo di precisare meglio l’argomento. Quando si parla di “decentramento” ci si riferisce sia all’ambito politico sia a quello amministrativo (le nove Zone in cui è suddiviso il territorio comunale). Il decentramento politico ha finalità partecipative e di controllo e si attua attraverso i Consigli di Zona (CdZ). Il decentramento amministrativo serve per portare i servizi comunali più vicini ai cittadini (per esempio gli uffici di zona dell’anagrafe). Il referente politico è il Presidente del CdZ, mentre quello amministrativo è il Direttore. Ogni zona ha il suo budget (definito dal Comune), il suo regolamento ed esprime pareri obbligatori, attraverso il CdZ, su alcune questioni “locali” principalmente di carattere urbanistico (pianificazione, verde pubblico, traffico, …). Se è vero che i CdZ esprimono pareri obbligatori su numerosi aspetti della vita cittadina altrettanto vero che mancano di reali poteri operativi.

Di fatto negli ultimi anni il dibattito sulla riforma del Decentramento ha registrato varie posizioni, spesso contrastanti. Si oscilla tra la richiesta di aumentare il numero delle zone (tornando da 9 a 20 com’era in passato) in modo da presidiare meglio il territorio e le sue specificità e la voglia di eliminare del tutto i CdZ, ritenendoli fonti d’inefficienza, spreco e clientele politiche (nel 2007 i 359 consiglieri zonali costavano al Comune 3 milioni di euro l’anno). Allo stesso modo le finanziarie schizofreniche degli ultimi anni hanno ricalcato le medesime divergenze.

Vedete che l’argomento è complesso, ma proviamo fissare alcuni punti. Le zone sono realmente efficaci, se sono dotate di poteri decisionali reali. Ovviamente le scelte delle zone devono attuarsi all’interno di una cornice generale in cui le strategie sono chiare e definite (per esempio dal PGT). Probabilmente la direzione in cui muoversi è quella delle Municipalità (sul modello romano, ma cercando di prenderne solo i pregi e non gli italici difetti). Quali funzioni delocalizzare? Dipende tutto dal modello di città che si desidera perseguire. Si parla tanto di città policentriche, di città nelle città o di città di città. Di sicuro il modello dei “Municipi” va in questa direzione.

Va anche definito che ruolo dovrebbero avere i CdZ, non solo per le loro competenze locali, ma anche nelle decisioni e nelle strategie generali della città, giacché questi sono (in teoria) più vicini ai problemi dei cittadini rispetto al Consiglio Comunale. Dopo averne fissate le competenze (solo allora), avrà senso decidere in quante zone deve essere diviso il territorio comunale e ridisegnare i confini delle stesse secondo criteri non solo geografici o geometrici, ma anche identitari. In questo caso forse le indagini e il lavoro fatto in sede di analisi per il PGT al fine di identificare i NIL (nuclei di identità locali) potrebbero tornare utili. Ha senso che la stessa strada abbia i due lati in zone diverse? Forse si possono trovare soluzioni più efficaci. Inoltre vi è il rischio è che moltiplicando le zone si aumentino i centri di potere. Certo, fa specie che una città come New York sia divisa in soli cinque distretti (boroughs).

In più se vogliamo vedere la cosa alla scala vasta e inseriamo il tema della Città Metropolitana nell’equazione cosa succede? I nuovi comuni accorpati a Milano potrebbero (dovrebbero) a loro volta essere dei nuovi “Municipi”? La nuova Città Metropolitana (di cui si parla tanto, ma forse con troppa leggerezza, come di tutto ciò che è di moda) va però progettata con attenzione e non può essere la semplice somma delle parti di ciò che esisteva prima. Jane Jacobs in “Vita e morte delle grandi città” (Einaudi) pone l’attenzione sul problema dei “vuoti di confine” cioè di quelle zone che si trovano sul confine di parti di territorio ben definite. Zone marginalizzate e fonti di degrado. Se creo una città di città senza comprendere questo fenomeno e senza porre in atto strategie per integrare le parti, potrei trovarmi a dover gestire tanti spazi interstiziali a rischio di degrado tra ogni città (nella città).

Insomma il tema è vasto e deve essere affrontato con cautela, senza retorica e senza residui ideologici, bensì con chiarezza e determinazione. Un efficace banco di prova per la nuova amministrazione.

 

Pietro Cafiero



Condividi

Iscriviti alla newsletter!

Per ricevere in anteprima sulla tua e-mail gli articoli di ArcipelagoMilano





Confermo di aver letto la Privacy Policy e acconsento al trattamento dei miei dati personali



Sullo stesso tema





18 aprile 2023

MILANO: DA MODELLO A BOLLA?

Valentino Ballabio






21 marzo 2023

CACICCHI EX LEGE

Valentino Ballabio






5 aprile 2022

IL RILANCIO DELLA CITTÀ METROPOLITANA

Fiorello Cortiana


Ultimi commenti