19 luglio 2011

cinema


 

THE NEXT THREE DAYS

di Paul Haggis [USA Francia, 2010, 122′]

con Russell Crowe, Liam Neeson, Olivia Wilde, Elizabeth Banks

“Sei già troppo perfetto, non mi hai neanche mai chiesto se l’ho fatto, se l’ho uccisa?” Nella sala di visita del carcere, Lara (Elisabeth Banks) disillusa e rabbiosa rimprovera il marito John (Russell Crowe) di un eccesso di integrità, di irreprensibilità. Qualcosa che va al di là delle capacità umane. Il concetto di perfezione è evocato continuamente da Paul Haggis, regista di The Next Three Days. Il numero tre è presente nel titolo e tre sono sono i segmenti temporali in cui è divisa la pellicola. Ci vengono narrati gli ultimi tre anni, tre mesi e tre giorni della vita dei due protagonisti.
Il sistema giudiziario americano ha condannato sbrigativamente Lara per omicidio. La virtuosità e il coraggio del marito sono gli unici due appigli rimasti per recuperare la libertà. John ha letto negli occhi della moglie l’innocenza e la sua estraneità all’omicidio fin dal momento dell’arresto. L’ingiustizia e l’insopportabile lontananza dalla moglie lo spingono a trasformarsi da tranquillo professore in uno stratega dell’evasione.

The Next Three Days è un remake di Pour Elle, pellicola francese del 2008 di Fred Cavayé. Paul Haggis ripercorre un sentiero più volte battuto dal cinema americano. Questo eroe comune che spara, ruba i soldi a delinquenti di razza, guida e sfugge alla polizia come il miglior James Bond stona rispetto ai personaggi così veri e profondi visti in Crash, pellicola che era valsa al regista l’Oscar nel 2006.

Il film è costruito per tenere lo spettatore sospeso sul filo sottilissimo della tensione. Il ritmo non offre pausa e la telecamera non spreca inquadrature che non servano a tenerci incollati allo schermo. C’è però da sottolineare che non si riesce ad apprezzare alcuno sforzo del regista nel mettere in evidenza le capacità interpretative ed espressive degli attori che appaiono più come strumenti per far correre veloce la pellicola.

Marco Santarpia
 

In sala a Milano: AriAnteo Conservatorio 21 luglio, AriAnteo P.ta Venezia 2 settembre.

  

13 ASSASSINI

di Takashi Miike [Juusan-Nin No Shikaku, Giappone, Gran Bretagna, 2010, 120′]

con: Tsuyoshi Ihara, Yusuke Iseya, Kôji Yakusho, Takayuki Yamada, Goro Inagaki

Due spade che si incrociano, una contro l’altra, nell’attesa che una riesca a prevalere penetrando la carne del nemico. Due modi opposti di concepire il potere, anch’essi incrociati, anch’essi giunti al duello finale. E, infine, due uomini pronti a uccidere per i propri valori, separati l’uno dall’altro soltanto da un’affilata lama. Finisce più o meno in questo modo 13 assassini [Juusan-Nin No Shikaku, Giappone, Gran Bretagna, 2010, 120′] di Takashi Miike. «Comandare è comodo, ma è comodo solo per chi comanda», sentenzia Matsudaira (Goro Inagaki) prima dello scontro finale con Shinzaemon Shimoda (Kôji Yakusho).

L’arroganza di un uomo abituato a uccidere i suoi servi senza alcuna pietà, umiliandoli come oggetti privi di valore. Matsudaira, fratello dello Shogun, è destinato a diventare un politico influente in quel Giappone feudale del primo ‘800 dove Miike sviluppa la storia. Shinzaemon vuole impedire questo destino imminente perché – secondo lui – «colui che dà valore alla propria vita è destinato a morire come un cane». Il regista, con 13 assassini, rimane fedele alle tradizioni giapponesi del periodo: l’osservanza del codice dei samurai è un precetto indiscutibile per un uomo che ha scelto quella strada.

Forse però, la storia di cui parla Miike non è così vincolata al luogo dove si svolge. Potremmo essere nel vecchio West, con i revolver al posto delle spade, e due pistoleri che si fronteggiano in uno stallo alla messicana per stabilire se saranno i buoni o i cattivi a prevalere. Anche in quel caso il confine sarebbe labile e, alla fine, il risultato sarebbe un «massacro totale». Potremmo essere in qualsiasi epoca, in qualsiasi luogo, ovunque dove si stia consumando la battaglia tra “buoni” e “cattivi”. Shinzaemon arruola dodici samurai per formare quella “banda” di assassini pronti a tutto, disposti a morire per onorare la loro causa contro il tremendo Matsudaira. Nella prima parte del film – forse un po’ lenta – Miike indugia sull’attenta selezione degli uomini che devono avere abilità tecniche e prontezza di spirito.

Poi, nella seconda parte, c’è la vera messa in scena della violenza; un combattimento spietato tra l’esercito del Signore e i tredici samurai di Shinzaemon. Un «massacro totale» che soltanto la morte può fermare. Miike utilizza la violenza con grande classe: anche le sequenze più crude sono raccontate dalla telecamera in modo virtuoso; l’occhio del regista (e quindi anche il nostro) non si approfitta mai della spettacolarità della carne che si lacera per creare shock. Trasmette la stessa sofferenza soffermandosi sul volto dolorante piuttosto che sulla spada che trafigge. E, alla fine, è proprio la macchina da presa a sottolineare la sconfitta di Matsudaira: lo guarda dall’altro mentre trema pauroso per la morte incombente.

Una visione capovolta del Signore, ora spogliato del suo potere, nudo davanti al popolo, proprio perché – come dice Shinzaemon -«voi siete in alto solo grazie a chi sta in basso». Ma il samurai difende il suo padrone, a ogni costo, senza porsi problemi di morale: questa volta è prevalso il “buono”, la prossima volta chissà.

Paolo Schipani

In sala Milano: Centrale Multisala

 

 

questa rubrica è a cura di Paolo Schipani e Marco Santarpia

rubriche@arcipelagomilano.org

 

 



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