12 luglio 2011

PARTITI E MOVIMENTI: DECIDERE O STALLO


Il nuovo dilemma che si pone oggi alla politica locale milanese è in realtà un problema antico che si riveste delle contingenze del momento. La lista civica di Giuliano Pisapia, che si è presentata con successo alle elezioni amministrative, ha mobilitato un numero notevole di militanti e di elettori, che ora si chiedono, e chiedono ai loro leaders, se non sia opportuno stabilizzare questo movimento trasformando la lista civica in una formazione politica stabile, un “partito”, per brevità, anche se in questo campo l’esattezza delle denominazioni è un elemento tutt’al-tro che trascurabile. Va senza dire che i partiti più tradizionali della coalizione non vedono di buon occhio questa prospettiva e che subito si è avviato un brontolio di fondo, mentre Pisapia e i suoi elettori temono, con un certo grado di buona ragione, che in vista di un percorso irto di difficoltà il nuovo sindaco rischia di trovarsi un Giovanni Senza Terra nei momenti in cui si dovranno prendere le decisioni più impopolari e meno gradevoli al palato da parte dei partiti esistenti.

D’altro canto, è una vecchia storia: la trasformazione di un gruppo di opinione ancorché di successo in una forma più stabile che inevitabilmente dovrà irrigidirsi in una struttura con sue regole ed esigenze, non è una operazione facile e le garanzie di successo sono scarse. Suggerisco a tutti, ma seriamente, non come un vezzo letterario o una citazione dotta, bensì come testo da meditare per l’oggi, Roberto Michels, (tr.it) La sociologia del partito politico, UTET, Torino 1912. Il testo è del 1911 e scontati alcuni inevitabili anacronismi vale ancora quasi per intero, anche perché certi meccanismi messi in luce da Michels sono inerenti a ogni forma organizzativa, tanto che non è un caso che abbia fornito gran parte della base teorica della Sociologia delle organizzazioni, uno dei settori più originali dell’investigazione sociologica. In tutta sincerità se dovessi oggi scegliere se trasformare o meno la “lista civica per Pisapia” in un partito, tirerei la moneta: vale quindi la pena di approfondire l’argomento, nel quadro di una valutazione più generale di quanto sta avvenendo nel sistema politico italiano.

Diciamo subito che i partiti tradizionali sono scomparsi con la crisi del Muro di Berlino: Mani Pulite è in parte dovuta alla difficoltà dei partiti dell’arco costituzionale di trovare fonti di finanziamento diverse da quelle provenienti dagli usuali patrons della Guerra Fredda. Si infittirono i convegni sui “costi della politica”, ma il risultato fu uno solo. I partiti diventarono “leggeri” o tentarono vie nuove come il fallimentare “club dei club”, ma contemporaneamente aumentò enormemente la corruzione d’individui o di piccole cliques (small c’s:, cliques, clubs, cabals: in Italia le varie P). Anche quelli come il PD, che hanno mantenuto una sorta di esoscheletro organizzativo, hanno perso largamente le loro funzioni originarie: in particolare quella di raccogliere la domanda, ma soprattutto quella di selezionare le nuove classi dirigenti e di favorire una decente circolazione delle élites interne, in partiti sempre più le leaderisti e cesaristi.

Come dice con grande lucidità Valerio Onida questa trasformazione è largamente dovuta a fatti istituzionali: un finto bipartitismo che si è trasformato in un bipolarismo di maniera, e la legge “porcata” di Calderoli che ha dato alle segreterie dei partiti un potere inaudito e devastante, presupposto per ogni forma di corruzione possibile, perché viene reciso quel legame (accountability) dell’eletto con i suoi elettori che è uno dei meccanismi base di una democrazia non patriarcale. Purtroppo negli ultimi quindici-venti anni la leadership dei partiti d’opposizione si è adagiata in una filosofia disfattista: in vent’anni, la sola sapienza politica tollerata è stata quella di arrovellarsi su una equazione irresolubile, come quelle della quadratura del cerchio o del decimo problema di Hilbert, e cioè come fare una politica (e proiettare una immagine) sufficientemente di destra per conquistare l’elettorato di centro. Filosofia politica espressa con il massimo della lucidità da uno dei suoi maggiori teorici quando ha proposto ai milanesi di candidare contro la Moratti l’ex sindaco Albertini (a suo tempo personalmente scelto da Silvio Berlusconi con molta intelligenza politica, beninteso come candidato della destra).

Ma questa politica dell’acqua nel mortaio, che dura ancora oggi, nonostante importanti segni di cambiamento nel paese, la obbrobriosa agonia del berlusconismo e la catastrofe economica incombente, non è frutto di insipienza o ingenuità: è frutto di calcolo, perché ha permesso a D’Alema e a buona parte della dirigenza politica nazionale e locale del Centrosinistra, di prosperare serenamente per vent’anni, facendo i propri interessi e accumulando potere. E’ una opposizione che disprezza (e teme) i movimenti e la società civile contrapponendoli ai partiti, come fa appunto D’Alema con sussiegosa altezzosità nel discorso di Gargonza. “Io non conosco questa cosa, questa politica che viene fatta dai cittadini e non dalla politica. La politica è un ramo specialistico delle professioni intellettuali. E finora questo momento non si conoscono società democratiche che hanno potuto fare diversamente”. Come è avvenuto per molte altre affermazioni apodittiche di questo leader, del tipo “La Lega è una costola della sinistra”, anche questa cozza sonoramente contro l’evidenza dei fatti, ma che importa?

In parte i cosiddetti “movimenti” sono stati il prodotto di questa politica. Con partiti di sinistra e Centrosinistra più aperti alle istanze, a volte anche verbosamente estreme, ma non necessariamente tali Di Pietro e Grillo avrebbero avuto vita molto più dura Certo occorreva una intelligenza politica di inclusione che questa dirigenza arroccata non ha avuto. E così anche i movimenti di società civile, i “girotondini”, i “viola” eccetera sono stati subito stigmatizzati. Ma non è bastato, i cambiamenti sono in corso e l’intero establishment del PD, con rarissime eccezioni non ha capito cosa stava succedendo fuori della scatola fino all’ultimissimo momento e forse anche dopo. Sarebbe ingiusto non riconoscere che il riflesso condizionato della buona organizzazione ha funzionato anche nelle amministrative e nei referendum. La militanza del PD si è data da fare anche a dispetto dello scetticismo dei capi.

Ma in tutti i passaggi in cui si sentiva il profumo del nuovo, la dirigenza del centrosinistra sentiva invece l’odore della vecchia stalla e lì correva: alle primarie, di fronte ai movimenti delle donne (che difatti a Siena hanno rifiutato ogni apparentamento), nel complesso arcipelago del mondo giovanile, nell’indignazione generale di una politica fatta di soprusi, rapine, ceffi impresentabili e azioni disgustose (“l’orrore, l’orrore!”) il PD non ha capito molto e ha creduto ancor meno nella possibilità di cambiare. In alcuni casi, come a Napoli, questa incomprensione è stata disastrosa e vecchie volpi della politica come Umberto Ranieri hanno rivelato tutta la loro incapacità di uscire dalla scatola e ancora oggi attaccano la giunta di De Magistris invece di sostenerla. La profezia di Nanni Moretti che con quella leadership ci saremmo tenuti Berlusconi si è avverata ed è significativo che un leader politico-politicante come D’Alema in quella occasione non abbia trovato la forza di rispondere alla sfida faccia a faccia, ma se ne sia andato.

Tuttavia ciò che noi chiamiamo “movimento” o “movimenti” non è qualcosa di univoco o omogeneo, ma il risultato di una serie di spinte trasformative, In politica il cambiamento avviene: a) quando i medesimi gruppi sociali vengono convinti dall’offerta politica che la loro rappresentanza politica tradizionale non li rappresenta più e quindi spostano il loro consenso su un’altra leadership (è stato il caso di molta borghesia milanese che pure forse in passato aveva votato Moratti o Albertini); b) quando un gruppo acquista quel che si diceva una volta “coscienza” dei propri problemi e non trova chi risponde a queste domande, ma istintivamente si rivolge al nuovo: è quello che è avvenuto con i girotondini, i dipietristi, i grillini, e ora con gruppi ampi come quello di “se non ora quando?” o i precari.

Oppure c) quando cambia il peso relativo di alcuni gruppi che hanno propensioni politiche più o meno identificabili, come è avvenuto nello smottamento sotterraneo dell’ultimo decennio che ha visto aumentare nel corpo elettorale di circa 5 milioni i nuovi ingressi, relativamente più istruiti e meno teledipendenti ma soprattutto più disperati per il proprio futuro, mentre ne sono usciti altrettanti, con pensioni povere, ma sicure, e gradi di femminilizzazione, scarsa istruzione e scarsa esperienza di lavoro fuori dalla famiglia, largamente tele e Fede dipendenti. Cui vanno aggiunti i 2 milioni di elettori generalmente delle coorti anziane della riduzione del corpo elettorale.

Per tutti costoro il “partito leggero” era già lì pronto nel web, ma bisognava saperlo usare, non alla vecchia maniera come manifestino digitale. Questi nuovi elettori non sono necessariamente tutti di sinistra nel vecchio senso, ma certamente rigettano in blocco i vecchi guitti della destra, fischiano Sgarbi, si mettono a ridere quando vedono Ferrara e Ostellino in mutande o la Santanchè che fa la santarellina, Rotondi che fa una festa con tartufi grandi come meloni (con i nostri soldi) il giorno in cui un canale televisivo racconta la giornata di una famiglia romana che non ha neppure i soldi per andare al mare a pochi passi, il sontuoso matrimonio di Brunetta due giorni dopo che si è preso del cretino da Tremonti (con quale piacere per chi deve difendere i nostri conti è facile immaginare) e le facce inceronate di Fede e Berlusconi o quelle al molibdeno dei radicali liberi come Capezzone o Quagliariello, o l’orribilità della Moratti e dei leghisti con le loro oscene propagande da dirty tricks.

Questa gente è fuori: i Cetto La Qualunque sono usciti di scena e alcuni a poco a poco compariranno nelle aule di giustizia come si sta già verificando. Come è avvenuto nel ’92, non ci sono più soldi da distribuire e il tronco mangiato dalle termiti si sgretola (vedi Bruce Bueno de Mesquita e Alastair Smith, (“How Tyrants Endure”, NYT, OP-Ed, Friday June 10th, 2011 A35). E allora? Io credo che siamo a uno snodo, che la dirigenza del Centrosinistra debba uscire dal comodo letargo del “domani è un altro giorno” e debba proporsi, ma con molta umiltà, come attore importante, ma non egemonico, in una situazione in flusso, in cui i partiti e i movimenti e i nuovi raggruppamenti devono convivere: i vecchi partiti devono imparare a navigare in questo mare i nuovi movimenti devono, se vogliono consolidarsi, evitare i modelli del passato. L’elezione di Pisapia ha fornito un modello proponendo la “propaganda of the deeds” (la propaganda dei fatti) contro la “propaganda of the words” (“la propaganda delle parole”). Non buttiamolo via, facciamo si che l’esperimento milanese vada a fondo in questo nuovo mondo della politica in cui si aprono molte possibilità per tutti, ma in cui nulla è garantito.

Guido Martinotti



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