ANGÈLE ET TONY

di Alix Delaporte [Francia, 2010, 85′]

con Clotilde Hesme, Grégory Gadebois, Evelyne Didi, Jérome Huguet, Antoine Couleau

Angèle conosce a memoria le battute della favola di Biancaneve. Grazie a lei è salva la recita della scuola del piccolo paese in Normandia. La ragazza riesce a interpretare, senza alcuna preparazione, il ruolo della strega cattiva. Siamo a metà di Angèle et Tony, pellicola d’esordio della regista francese Alix Delaporte, e non si può che rimanere esterrefatti. La ragazza, dura e sfrontata, reduce da due anni di prigione, ci rivela un’imprevedibile passione per questa favola per bambini.

Angèle ha qualcosa di importante in comune con Biancaneve: è alla ricerca disperata del principe azzurro. La sua è una necessità vitale e concreta, ha bisogno di un compagno da presentare ai servizi sociali per provare a recuperare la custodia del figlio che, durante il suo periodo di detenzione, è stato affidato ai nonni. Il suo principe azzurro ha le goffe sembianze di un pescatore taciturno, Tony. Tony è protettivo, altruista, non esita a ospitare in casa propria la ragazza appena conosciuta.

Tra i due non c’è il classico colpo di fulmine fiabesco, c’è uno scontro costante dovuto a due approcci alla vita agli antipodi. Non hanno niente in comune, se non l’ardente e irrazionale desiderio di stare insieme. Durante il film, Angèle è più volte ripresa da dietro, seguita dalla telecamera mentre percorre le strade della Normandia sulla sua bicicletta. Una similitudine perfetta della vita della protagonista. Ogni metro percorso deve essere conquistato con fatica e con le proprie forze.

L’entusiasmo dei piccoli traguardi la spinge a pedalare leggera e veloce, l’allontanamento costante del figlio, al contrario, la inchioda esausta sui pedali rendendo un miraggio la casa di Tony. La vita ha scaraventato Angèle ai piedi di una montagna. Non bastano la sua forza e la sua combattività per portare la bicicletta in vetta. Servono la spinta e il sostegno di due spalle larghe e forti del più singolare e insolito tra i principi azzurri.

Alix Delaporte ha un occhio discreto in questo suo primo lungometraggio. Riesce a non calcare la mano con drammi o facili sentimentalismi. Sceglie di raccontarci questa storia semplice con tatto e delicatezza, grazie anche al prezioso supporto di attori esperti e magnificamente espressivi.

Marco Santarpia

 

In sala a Milano: AriAnteo Umanitaria 8 luglio, AriAnteo Porta Venezia 26 luglio

 

 

METAMORFOSI DELL’ESPERIENZA

Nanni Moretti, alla consegna dei Nastri d’argento, ha speso qualche parola sugli effetti portati dai grandi cinema multisala all’interno della società e dell’universo cinematografico: «per molto tempo ho ritenuto che non ci fosse niente di male, che si giudicasse il fenomeno con una certa prevenzione; anche a me piacciono i pop corn movies. Poi, guardando i film programmati, che sono quasi tutti dello stesso genere, mi sono convinto che, invece, degli elementi negativi ci sono. I multiplex hanno provocato la chiusura di tante sale cittadine e questo è molto brutto».

Le dichiarazioni del regista hanno scatenato diversi dibattiti sul web, riaccendendo la discussione sul ruolo di queste “cattedrali del cinema” costruite nelle periferie delle grandi città. Mi ha colpito l’articolo di Robert Bernocchi apparso su Mymovies.it il 28 giugno scorso (http://www.mymovies.it/biz/news/66584/). L’analisi del pensiero di Moretti fatta da Bernocchi passa dal mettere in competizione i film commerciali con il cinema d’autore, per poi concentrarsi sulle migliorie tecnologiche garantite nei multiplex, concludendo – in maniera un po’ provocatoria – chiedendosi se Moretti non stia agognando quel “ritorno al passato” tanto caro a chi non riesce a stare al passo coi tempi.

Credo che la riflessione del regista sia da interpretare in modo un poco più “ampio”. Amante della Settima arte e cresciuto negli anni ’70 e ’80, sicuramente Moretti mantiene sottopelle quella “nostalgia culturale” per le sale d’essai: piccole sale in cui era possibile vivere un’esperienza della visione cinematografica che iniziava appena si entrava in quel luogo. Risiede proprio nelle parole “esperienza” e “luogo” lo scostamento portato dai multisala.

L’antropologo francese Marc Augé ha introdotto il neologismo nonluogo per definire quegli spazi in cui molte persone si incontrano senza però condividere alcun tipo di relazione; dove domina il desiderio del consumo rapido e la persona diventa, appunto, un utente, un consumatore. Il passaggio dalle sale cittadine ai giganteschi centri multiplex allora, potrebbe essere visto come una metamorfosi da luogo a nonluogo. Passeggiando in una di queste strutture non è difficile percepire quella sensazione di provvisorietà tipica dei grandi centri commerciali: transito frenetico delle persone da una vetrina all’altra; ristoranti, sale giochi, bar, negozi di ogni tipo pronti a soddisfare la fame d’acquisto del cliente. L’individuo è staccato da qualsiasi relazione ed è smarrito all’interno della ripetizione infinita dei multisala. Ripetizione esaltata da una sorta di franchising tra le strutture che, in città differenti, ripropongono più meno costantemente gli stessi ambienti. Il cliente arriva e sa già cosa troverà, proprio come se andasse da Mc Donald’s.

Ma il cinema è, innanzitutto, comunione. La creazione del senso avviene attraverso un’esperienza di condivisione che inizia fuori dalla sala (mentre siamo in fila per comprare il biglietto), prosegue durante la visione, e termina una volta abbandonato il teatro. Inoltre, l’andare al cinema è in primis una scelta: abbiamo deciso prima di andare in quel luogo per vivere una determinata esperienza. Il multisala, al contrario, offre un panorama ampio di scelte, tra le quali c’è anche la possibilità di vedere un film. Ma non è detto. Magari, dopo aver fatto l’aperitivo al bar, aver cenato al ristorante cinese, giocato con le slot machine della sala giochi, bevuto una birra nel pub al terzo piano, preferiamo rincasare.

È fuori luogo allora concentrarsi su una battaglia tra “cinema commerciale” e cinema d’autore. Così come mi pare insensato aprire un conflitto generazionale tra «un certo tipo di pubblico sui 50-60 anni [che] sta ormai abbandonando il cinema, lasciando che lo spettatore medio sia molto giovane e più orientato verso i classici prodotti da multiplex». Probabilmente, Moretti non intendeva fare un’arringa concentrata sui contenuti, ma ha sentito una mancanza di struttura. Nostalgia verso quella struttura-cinema che essendo luogo – per riprendere Augé – garantiva un’esperienza piena, qualsiasi fosse la proiezione.

«I multiplex hanno provocato la chiusura di tante sale cittadine e questo è molto brutto», dice Moretti. Condivido, perché per chi vive il cinema come un luogo di culto anche il sagrato riveste una parte fondamentale.

 

Paolo Schipani

 

 

questa rubrica è a cura di Paolo Schipani e Marco Santarpia

rubriche@arcipelagomilano.org



Condividi

Iscriviti alla newsletter!

Per ricevere in anteprima sulla tua e-mail gli articoli di ArcipelagoMilano





Confermo di aver letto la Privacy Policy e acconsento al trattamento dei miei dati personali




Ultimi commenti