CIRKUS COLUMBIA

di Danis Tanovic [Bosnia-Herzegovina, Francia, Gran Bretagna, Germania, Slovenia, Belgio, Serbia, 2010, 113′]

con Miki Manojlovic, Boris Ler, Mira Furlan, Jelena Stupljanin

Nel 1991, a seguito della caduta del regime comunista, Divko Buntic (Miki Manojlovic) torna a casa nel suo piccolo villaggio in Erzegovina. Vent’anni di esilio forzato in Germania gli hanno garantito molti soldi, una macchina lussuosa, una compagna giovane e attraente e, soprattutto, il tanto agognato ritorno trionfale nel paese natio. L’irruenza scellerata del suo rientro lo spinge senza rimorsi a cacciare di casa la moglie abbandonata (Mira Furlan) e il figlio Martin (Boris Ler).

I soldi accumulati permettono a Divko di accattivarsi le simpatie del paese, a tal punto da veder tollerato il bizzarro e morboso attaccamento al gatto Bonny. I soldi, però, non possono tutto, come egli stesso arriva ad ammettere. Non gli resta, perciò, che togliere quella finta e arrogante maschera costruita nei lunghi anni di lontananza per pareggiare i conti con gli affetti e con il passato.

Dopo quasi dieci anni Danis Tanovic torna al tema a lui, ovviamente, più congeniale. In No man’s land, premio Oscar 2002 come miglior film straniero, ci aveva catapultato grazie a un approccio crudo e dirompente nel mezzo di questo conflitto fratricida. L’umorismo nero e la feroce critica tout court della sua opera prima lasciano spazio in Cirkus Columbia a una narrazione più lenta, che meglio esalta l’accurata descrizione dei sentimenti instabili di questo periodo che precede il conflitto.

La situazione turbolenta vissuta dalla famiglia Buntic è il piccolo specchio del terremoto politico e sociale che sta frazionando i balcani. Tanovic, a vent’anni dall’inizio della guerra, ci offre uno sguardo riflessivo e comprensivo che cerca di descrivere più che giudicare. Con un sorprendente e poetico giro di giostra finale ci regala l’istantanea dell’ultimo raggio di sole prima della tempesta.

Marco Santarpia

In sala: Cinema Roma – Seregno

  

BIUTIFUL

di Alejandro González Iñárritu [Messico, Spagna, 2010, 148′]

con: Javier Bardem, Maricel Alvarez, Hanaa Bouchaib, Guillermo Estrella, Eduard Fernàndez

 «Papà, papà, papà», con queste tre parole sussurrate da Ana (Hanaa Bouchaib) inizia Biutiful [Messico, Spagna, 2010, 148′] di Alejandro González Iñárritu. La bimba stringe la mano di Uxbal (Javier Bardem) – suo padre – mentre lui, lentamente, sospira gli ultimi momenti di vita. Uxbal sente il richiamo della figlia, lo ascolta affievolirsi adagio, fino a perdersi in un sogno. Una visione. Ora è in una foresta innevata, sorride con quell’uomo che mai ha avuto la fortuna di vedere: suo padre.

Questo è Biutiful di Iñárritu: la perdita, la sofferenza, il padre. Uxbal non è mai riuscito a conoscere suo papà, scappato in Messico dalla Spagna di Franco e mai più ritornato. «È brutto non avere il papà», dice Mateo (Guillermo Estrella) – figlio di Uxbal – quando il padre gli racconta la sua storia. È lancinante per Uxbal sapere di dover dare questa delusione al figlio, da lì a poco. Ha un cancro. Pochi mesi separano Uxbal da una morte inesorabile.

Iñárritu questa volta scrive una storia lineare. Non c’è Guillermo Arriaga come sceneggiatore, a differenza degli altri lavori del regista, e Biutiful procede sulla strada di Uxbal. Non ci sono storie parallele destinate a incrociarsi, ma solo Uxbal e la sua vita. La macchina da presa è addosso a Bardem: lo segue, lo scruta da vicino; penetra nella sua pelle fino a raggiungerne l’anima. L’attore è bravo. Merita il premio ricevuto a Cannes, conferma il livello raggiunto nei film precedenti (penso a Non è un paese per vecchi, Vicky Cristina Barcelona). Ma, stavolta regge il peso della storia sulle sue spalle.

E la storia è cruda. Un pugno dritto allo stomaco per noi in sala. Molti hanno detto e scritto che Iñárritu si è facilmente appellato alle emozioni forti. È vero. Un uomo col cancro che fa da intermediario tra malavita cinese e africana, una moglie alcolizzata e mezza troia, due figli cresciuti nella “Barcellona-male”, la dote di parlare con l’aldilà utilizzata per racimolare qualche soldo. È vero, è un appello alle emozioni. Ma riesce. Riesce a farti entrare nelle piaghe di Uxbal, a farti patire le sue sofferenze. Iñárritu usa il suo cinema per farci assaggiare un mondo altro. E ci riesce.

«Come si scrive biutiful?», domanda Ana al padre. Biutiful è qualcosa che Uxbal non riesce a dare ai suoi figli; un futuro scritto, inesorabile, su cui Uxbal non ha alcun potere. «Homo faber fortunae suae», seguendo una locuzione latina, ma Uxbal non è artefice del proprio destino. Il suo corpo degenera, i suoi bimbi non avranno più un padre.

Sembrava scorrere su una linea Biutiful ma, forse, girava attorno a un cerchio. Siamo di nuovo qui, dove eravamo all’inizio: «papà, papà, papà», con queste tre parole sussurrate da Ana finisce Biutiful. La bimba stringe la mano di Uxbal – suo padre – mentre lui, lentamente, sospira gli ultimi momenti di vita. Uxbal sente il richiamo della figlia, lo ascolta affievolirsi adagio, fino a perdersi in un sogno. Una visione. Ora è in una foresta innevata, sorride con quell’uomo che mai ha avuto la fortuna di vedere: suo padre.

Paolo Schipani
 

In sala: Anteo Spazio Cinema – Giovedì 9 giugno – rassegna “Rivediamoli”

  

questa rubrica è a cura di Paolo Schipani e Marco Santarpia

rubriche@arcipelagomilano.org

 

 



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