7 giugno 2011

arte


 

DOPPIO KAPOOR A MILANO

Sono tre gli appuntamenti che l’Italia dedica quest’anno ad Anish Kapoor, artista concettuale anglo-indiano. Due di questi sono a Milano, e si preannunciano già essere le mostre più visitate dell’estate. Il primo è alla Rotonda della Besana, dove sono esposte sette opere a creare una mini antologica; il secondo è “Dirty Corner“, installazione site-specific creata apposta per la Fabbrica del Vapore di via Procaccini. Entrambe curate da Demetrio Paparoni e Gianni Mercurio, con la collaborazione di MADEINART, gli stessi nomi che hanno curato anche la retrospettiva di Oursler al Pac.

Una mostra di grande impatto visivo, quella della Besana, con opere fatte di metallo e cera, realizzate negli ultimi dieci anni e che sono presentate in Italia per la prima volta. Opere di grande impatto sì, ma dal significato non subito comprensibile. Kapoor è un artista che si muove attraverso lo spazio e la materia, in una continua sperimentazione e compenetrazione tra i due, interagendo con l’ambiente circostante per “cercare di generare sensazioni, spaesamenti percettivi, che porteranno a ognuno, diversi, magari insospettabili significati”, come spiega l’artista stesso. Ecco perché non tutto è lineare, come si può capire guardando le sculture in acciaio “C-Curve” (2007), “Non Object (Door)” 2008, “Non Object (Plane)” del 2010, ed altre che provocano nello spettatore una percezione alterata dello spazio. Figure capovolte, deformate, modificate a seconda della prospettiva da cui si guarda, un forte senso di straniamento che porta quasi a perdere l’equilibrio. Queste solo alcune delle sensazioni che lo spettatore, a seconda dell’età e della sensibilità, potrebbe provare davanti a questi enormi specchi metallici.

Ma non c’è solo il metallo tra i materiali di Kapoor. Al centro della Rotonda troneggia l’enorme “My Red Homeland“, 2003, monumentale installazione formata da cera rossa (il famoso rosso Kapoor), disposta in un immenso contenitore circolare e composta da un braccio metallico connesso a un motore idraulico che gira sopra un asse centrale, spingendo e schiacciando la cera, in un lentissimo e silenzioso scambio tra creazione e distruzione. Un’opera, come spiegano i curatori, che non potrebbe esistere senza la presenza indissolubile della cera e del braccio metallico, in una sorta di positivo e negativo (il braccio che buca la cera), e di cui la mente dello spettatore è comunque in grado di ricostruirne la totalità originaria.

Il lavoro di Kapoor parte sempre da una spiritualità tutta indiana che si caratterizza per una tensione mistica verso la leggerezza e il vuoto, verso l’immaterialità, intesi come luoghi primari della creazione. Ecco perché gli altri due interessanti appuntamenti hanno sempre a che fare con queste tematiche: “Dirty Corner“, presso la Fabbrica del Vapore, un immenso tunnel in acciaio di 60 metri e alto 8, all’interno dei quali i visitatori potranno entrare, e “Ascension”, esposta nella Basilica di San Giorgio Maggiore a Venezia, in occasione della 54° Biennale di Venezia. Opera già proposta in Brasile e a Pechino ma che per l’occasione prende nuovo significato. Un’installazione site-specific che materializza una colonna di fumo da una base circolare posta in corrispondenza dell’incrocio fra transetto e navata della maestosa Basilica e che sale fino alla cupola.

ANISH KAPOOR – Rotonda di via Besana – fino al 9 ottobre Fabbrica del Vapore, via Procaccini 4 – fino all’11 dicembre Orari: lun 14.30 – 19.30. Mar-dom 9.30-19.30. Giov e sab 9.30-22.30. Costi: 6 € per ciascuna sede, 10 € per entrambe le sedi.

 

 

LE ALLUCINAZIONI VIDEO DI TONY OURSLER

Già dai primi passi dentro l’atrio del PAC ci si rende conto fin da subito che quella che stiamo per vedere non è una mostra come tutte le altre. Sibili, suoni, voci, parole urlate da angoli remoti trasportano immediatamente in una dimensione spaesante e un po’ inquietante. Se poi la mostra in questione è una retrospettiva su Tony Oursler, allora possiamo aspettarci davvero di tutto. “Open obscura” è una rassegna che raccoglie opere importanti di Oursler, artista americano e pioniere della video art su supporti non convenzionali: non solo video ma anche sculture e agglomerati di oggetti, sui quali vengono proiettati video e filmati in loop.

Ecco perché è stato definito l’ideatore della video scultura, anche se, è bene dirlo, le sue ricerche sono già andate oltre questo mezzo. Sculture informi, occhi giganti che galleggiano nell’aria ospitando bulbi oculari che ci fissano, a volte inquieti a volte interrogativi, palpebre che sbattono, pupille dilatate dalla luce, attorno alle quali il visitatore non può far altro che muoversi un po’ a disagio. Le installazioni di Oursler sono un mix di allucinazioni e incubi, come le facce colorate e distorte, tutte bocche e occhi, che sibilano e mandano messaggi a volte incomprensibili. Una sorta di tumori-pustole da cui distogliamo volentieri lo sguardo.

Ma attenzione. Oursler ci mostra tutta la finzione di questa realtà, non solo quella della mostra, ma anche quella in cui viviamo. I proiettori sono ben visibili, per terra o sulle pareti, per ribadire l’inganno a cui siamo sottoposti sempre, nell’arte e nell’era del digitale e della massificazione dell’informazione, di cui siamo un po’ tutti vittime e attori inconsapevoli. I suoi mostri dalle mille facce, a volte tristi, a volte arrabbiati, sono nati da uno studio che Oursler ha cominciato fin dal 1992, quando ha iniziato a studiare la schizofrenia, con un’attenzione particolare verso gli sdoppiamenti di personalità (il Multiple Personality Disorder), verso i disturbi compulsivi e le dipendenze (e infatti sono esposte le sue enormi sigarette che non si esauriscono mai).

Oltre agli enormi occhi, a sagome impossibili su cui sono proiettate immagini di fiori, donne, attori dal volto dipinto che declamano monologhi, muri che si costruiscono e poi esplodono, assolutamente interessanti sono i Peak, la nuova serie fatta da microsculture che accostano oggetti diversi, in una sorta di teatrino, su cui sono proiettate immagini che danno movimento (e molto appeal) all’insieme.

Un’altra novità è anche Valley, il progetto virtuale che Oursler ha realizzato per l’Adobe Virtual Museum (The Valley, 2010 visibile su http://www.adobemuseum.com). Attraverso alcune postazioni multimediali il pubblico ha la possibilità di interagire con la mostra digitale con cui l’artista ha inaugurato il museo virtuale di Adobe, giocando con alcune applicazioni. Concludono il tutto dei video di performance registrate dall’artista newyorkese, che vedono la partecipazione di gente comune e di un inedito, e molto divertente, David Bowie.

Tony Oursler. Open Obscura – PAC-fino al 12 giugno – Orari: lun 14.30-19.30, mar, mer, ven, sab e dom dalle ore 9.30 alle 19.30. Giov 9.30 – 22.30 – Costo: € 7,00 intero , € 5,00 ridotto.

 

 

RITORNA “BRERA MAI VISTA”

Dopo tre anni di assenza riprende l’iniziativa “Brera mai vista”, un’occasione unica per vedere dal vivo, nelle sale della sempre affascinante Pinacoteca di Brera, dipinti poco noti, generalmente conservati nei depositi della Pinacoteca per problemi di spazio, ma che prendono vita attraverso speciali esposizioni incentrate su di essi. Importante anche la presentazione che di questi dipinti viene fatta: studiosi e storici dell’arte si mettono in prima linea per studiarli, analizzarli e presentarli al grande pubblico. Ma quest’anno c’è una novità. L’opera in questione non è da sempre un bene di Brera, bensì un nuovo acquisto.

E’ la piccola ma preziosa tavola della Madonna con il Bambino, datata 1445 circa, attribuita al Maestro di Pratovecchio. Una tavola presumibilmente creata per la devozione privata, visto il piccolo formato, e che mostra una giovane Madonna dallo sguardo rassegnato, intenta a scrutare l’avvenire, che sa essere già carico di dolore. La madre e il Bambino, nell’atto di benedire, sono racchiusi in una sorta di nicchia coperta da quello che sembra essere un motivo damascato. La tavola è un dipinto poco noto, non solo per il pubblico ma anche per gli esperti, e che fu studiato e fotografato già da Roberto Longhi, che dedicò anche un saggio per ricostruire le vicende del misterioso pittore.

Un artista fino a poco tempo fa anonimo, conosciuto appunto come Maestro di Pratovecchio, ma a cui recentemente si è potuto dare un nome: Giovanni di Francesco del Cervelliera. Non un illustre sconosciuto però, ma un collaboratore artistico di Filippo Lippi, tra gli anni 1440-1442. E che sia proprio di quegli anni è evidente guardando il suo disegno, attento al rigore prospettico tipico fiorentino, ma anche interessato ai colori luminosi e cangianti che compaiono nelle vesti della Madonna. Riprendendo in questo sia il più noto Filippo Lippi, con i suoi personaggi inquieti, che i colori di Domenico Veneziano. La somiglianza con lo sfondo damascato della sua Madonna Berenson è davvero notevole. Gli stessi espedienti e artifici formali che hanno ispirato anche altri artisti, presenti nella raccolta della Pinacoteca: Giovanni Boccati, Giovanni Angelo di Antonio, Fra Carnevale e naturalmente Piero della Francesca, allievo di Domenico Veneziano.

Prima di essere esposta la tavola ha subito anche un restauro conservativo, ma che non ha alterato i tratti e la storia del dipinto, fattore importante per ricostruirne le vicende e non cancellare quelli che sono i segni del tempo della storia dell’arte. Ecco dunque che la piccola tavola potrà essere un’utile “scusa” per rivedere la Pinacoteca, integrando anche questo dipinto nel percorso storico e cronologico che la Pinacoteca propone.

Brera mai vista. La Madonna con il Bambino del Maestro di Pratovecchio – Pinacoteca di Brera, sala XXXI, fino all’11 settembre – Orari: 8.30 -19.15 da martedì a domenica – Costo: intero euro 9, ridotto euro 6.50.

 

 

L’ANELLO DEBOLE CHE SPEZZA LA CATENA

Termina con la mostra L’anello più debole della catena è anche il più forte perché può romperla, l’ultimo quarto di Terre Vulnerabili, progetto curato da Chiara Bertola presso l’HangarBicocca, contrassegnato dal tema della vulnerabilità. Quattro le mostre che si sono succedute e integrate l’una all’altra, per un totale di nove mesi, divise in quattro fasi come quelle lunari, e che hanno raccolto ben trentuno artisti internazionali e altrettante opere che sono via via cresciute, evolute, cambiate, modificate e si sono adattate agli spazi dell’Hangar.

L’ultima mostra, inaugurata il 5 maggio, vede la presenza di quattro nuovi artisti, gli ultimi in ordine cronologico che sono stati inseriti nel progetto: Roman Ondák, Pascale Marthine Tayou, Nari Ward e l’italiano Alberto Tadiello. Il titolo della quarta fase, L’anello più debole della catena è anche il più forte perché può romperla, è forse la dichiarazione più significativa rispetto allo scopo del progetto. La vulnerabilità è anche forza. Bisogna assecondarla e accettarla, farla diventare il punto di forza.

“Le catene rappresentano anche una struttura dinamica – dice Chiara Bertola – che conduce alla produzione di forme e di lavoro; all’interno del ciclo (o del processo) rappresentato da una catena, esiste sempre un anello debole (non allineato) che alla fine può rivelarsi come il più forte perché rompe uno schema di comportamenti prevedibili diventando così il più “creativo”. L’anello “difettoso” interrompe un ingranaggio e rompe dunque la normale successione delle azioni”. Ecco il significato di questa nuova fase, tutta in divenire, che presenta quattro nuovi interessanti lavori.

L’artista slovacco Ondák, presenta Resistance, un video nel quale a un gruppo di persone è stato chiesto di recarsi a un evento pubblico presso il quale essi si mescolano nella folla con i lacci delle proprie scarpe slacciati. In questa opera l’artista da una parte lavora sul rituale dell’opening, dall’altro crea una condizione straniante in chi guarda il video, “abbandonato” e incerto sulla corretta interpretazione.

Pascale Marthine Tayou, camerunese, costruisce nel CUBO Plastic bag una spettacolare installazione con un grande cono rovesciato interamente costituito da diecimila sacchetti di plastica biodegradabili di cinque tonalità diverse. Una prima versione dell’opera era già stata esposta nel 2010 in Australia, in questa sede è stata appositamente rivisitata e viene presentata per la prima volta in Italia. Già dal titolo si può intuire il materiale favorito di Tayou, il sacchetto di plastica, un oggetto assolutamente banale e anonimo, accessorio della quotidianità, che diventa simbolo della crescente globalizzazione, del consumismo, ma anche simbolo del nomadismo che sempre più caratterizza l’uomo moderno, una sorta di vagabondo che trascina nei sacchetti i pezzi importanti della sua vita. Con un risvolto assolutamente nuovo: oggi che i sacchetti di plastica sono banditi dal commercio, entrano “di diritto” a far parte dei materiali usati per l’arte.

E’ presente anche Nari Ward, giamaicano ma newyorkese di adozione, artista che usa come veicolo d’arte i materiali di riciclo della vita moderna e industriale, spesso raccolti direttamente nel suo quartiere, Harlem, ai quali dà nuova funzione e significato, usandoli per affrontare temi sociali come la povertà, l’immigrazione e la questione razziale. Per Terre Vulnerabili ha realizzato Soul soil, un grande contenitore ovale dove sono intrappolati e dal quale fuoriescono resti di oggetti abbandonati, materiali di recupero, parti in ceramica di sanitari e alcuni dei vestiti usati provenienti dall’installazione di Christian Boltanski, Personnes, esposta all’Hangar lo scorso anno, sfuggiti allo smantellamento di fine settembre 2010, interpretando così, in linea anche con la sua poetica, uno dei temi portanti di Terre Vulnerabili.

L’ultimo artista presente è l’italiano Alberto Tadiello, con il suo Senza titolo (Adunchi), una installazione di tubi di ferro, lamiere, dadi e bulloni su una colonna aggettante e spigolosa. Il significato è più che mai legato al tema della vulnerabilità e della precarietà. Così l’artista stesso, spiega la sua opera: “Un grumo di forze. Di aggettanza, di torsione, di urto, di trazione, di spinta. Di isolamento, di deformazione, di dissipazione, di accoppiamento, di riunione, di separazione. È solo metallo, ferro. Tagliato, smussato, graffiato, bucato, piegato, imbullonato. Si affaccia. Pesa, pende, gravita”.

E’ il momento di tirare le somme e vedere queste quattro fasi al completo, per comprendere a pieno cosa sia oggi la vulnerabilità secondo questi artisti ma soprattutto per vedere quanto questi progetti siano davvero definitivi. Lo sono?

Terre Vulnerabili 4/4 L’anello più debole della catena è anche il più forte perché può romperla -Hangar Bicocca Fino al 17 luglio. Orario: tutti i giorni dalle 11.00 alle 19.00, giovedì dalle 14.30 fino alle 22.00, lunedì chiuso Ingresso: intero 8 euro, ridotto 6 euro

 

 

AL MUSEO DEL NOVECENTO L’ARTE SCENDE IN PIAZZA

Il Museo del Novecento ha da poco inaugurato la sua prima mostra temporanea, intitolata “Fuori! Arte e spazio urbano 1968-1976”. La mostra, curata da Silvia Bignami e Alessandra Pioselli, è allestita al piano terra del museo, uno spazio piccolo e raccolto ma forse, c’è da dirlo, non troppo funzionale per questa mostra, fatta da video, filmati, pannelli e grandi fotografie. Il tema è tra i più interessanti: far luce su un periodo particolare della vita politica, artistica e sociale italiana, quella manciata d’anni che va dalle contestazioni giovanili del ’68 fino al decennio successivo. Momento sociale importante ma non solo, anche l’arte e gli artisti giocarono un ruolo cruciale nel risveglio delle coscienze popolari. Sono gli anni in cui l’arte si allontana da musei, gallerie e luoghi tradizionalmente deputati alla fruizione, per uscire “fuori”, appunto, in strada, per coinvolgere il pubblico e il mondo reale. Performance, azioni, installazioni, poco importa il medium, l’importante era la riappropriazione del tessuto urbano cittadino e il farlo insieme al pubblico.

Per capire la vicenda artistica di quegli anni, la mostra ne ripercorre alcune tappe significate, quali “Arte povera + azioni povere” (Amalfi, 1968; a cura di Germano Celant); “Campo Urbano” (Como, 1969; a cura di Luciano Caramel); il Festival del Nouveau Réalisme (Milano, 1970; a cura di Pierre Restany); “Volterra ’73” (Volterra, 1973; a cura di Enrico Crispolti), ma anche la Biennale di Venezia del 1976. Per spiegare queste azioni e performance così effimere sono stati usati video, filmati restaurati, registrazioni sonore, fotografie e manifesti, le “armi” di quella rivoluzione artistica che tanta importanza ebbe nel risvegliare pensieri e passioni.

Ecco allora in mostra le fotografie di Ugo Mulas per Campo Urbano; i gonfiabili di Franco Mazzucchelli allestiti fuori dai cancelli dell’Alfa Romeo di Milano (1971); i “lenzuoli” di Giuliano Mauri alla Palazzina Liberty di Milano contro la guerra in Vietnam (1976); le azioni incomprese sul territorio fatte da Ugo La Pietra e le prime ricerche sulla comunicazione, rivolte agli studenti, del Laboratorio di Comunicazione Militante. E ancora le pratiche di progettazione partecipata di Riccardo Dalisi a Napoli, per creare asili nei rioni disagiati; le fotografie della gente qualunque di Franco Vaccari; la “passeggiata con la sfera” di Michelangelo Pistoletto, riproposta dal film di Ugo Nespolo (1968/69); le interviste di Maurizio Nannucci, fatte di una sola parola ai passanti (Firenze, 1976). Ma anche le indimenticabili e scioccanti performance di Rotella, Restany e Niki de Sainte Phalle, durante il Festival del Nouveau Realisme a Milano, con il banchetto funebre, una sorta di macabra ultima cena per decretare la fine del gruppo, fatta dai membri del gruppo stesso; i monumenti impacchettati di Christo; le espansioni gommose di Cesar in Galleria Vittorio Emanuele e il monumento fallico di Tinguely. Tutto visibile attraverso filmati, documenti preziosi di momenti ormai perduti.

Insomma una carrellata di artisti e azioni che hanno profondamente influenzato l’arte di oggi e che idealmente completano il percorso espositivo del Museo del Novecento, che si conclude all’incirca agli anni Sessanta, con lavori pensati per superare il limite tradizionale del quadro o della scultura: dagli ambienti programmati e cinetici all’arte povera alla pittura analitica. In contemporanea, il Museo ospita anche altre due esposizioni: una sala è dedicata alla famiglia Carpi e ai suoi maggiori esponenti, Aldo e Pinin; all’ultimo piano invece sarà possibile studiare una selezione di disegni e ceramiche di Alessandro Mendini, provenienti dalla collezione di Casa Boschi-Di Stefano.

Per concludere, nell’ultima vetrata dello spazio mostre è stato allestito un white cube, dove dal 15 aprile al 30 giugno sarà esposta “Nice ball”, opera di Paola Pivi. Una composizione fatta di sedie di design in miniatura che, illuminate dall’interno, proiettano sulle pareti giochi di ombra. Seguiranno poi a rotazione anche un’opera d’arte, un oggetto di design e una fotografia.

Fuori! Arte e spazio urbano 1968-1976 – Museo del Novecento – fino al 4 settembre.
Lun 14.30-19.30; mar, mer, ven e dom 9.30-19.30; giov e sab 9.30-22.30
Biglietto intero 5 euro, ridotto 3 euro.

 

 

TRA SALE, SEGNI E MEMORIE STORICHE. PALADINO A MILANO

Maschere, croci, volti, rami, legno, pittogrammi, teste, elmi, simboli dal sapore alchemico. Tutto questo è Mimmo Paladino, tutto questo è ciò che il visitatore potrà vedere nella mostra appena inaugurata presso il piano nobile di Palazzo Reale. Curata da Flavio Arensi, la personale prende in esame oltre trent’anni di attività dell’artista campano, attraverso un nucleo di oltre 50 opere, tra cui 30 dipinti, sculture e installazioni. Una mostra creata con la collaborazione dello stesso Paladino, che ha scelto personalmente i lavori secondo lui fondamentali per ricreare la sua lunga carriera artistica. Paladino infatti nasce come artista concettuale, tra gli anni ’60 e ’70, per poi arrivare a far parte di quel gruppo di artisti che Achille Bonito Oliva, presentandoli alla Biennale di Venezia del 1980, definì Transavanguardia.

Un mondo, quello di Paladino, fatto da segni e simboli ancestrali, magici, legati indissolubilmente alle memorie culturali del territorio, soprattutto campano e beneventano, che porta con sé memorie primitive e longobarde che diventano quasi archetipi. Un’accumulazione di reperti storici e di modelli egizi, romani, etruschi, ma anche di reperti mnemonici, di tracce che diventano sostrato per la fantasia dell’artista, liberando una potenza creativa che a volte non si riesce a decifrare. “L’arte non è un fatto di superficie fine a se stesso, né di abbandono viscerale ad atteggiamenti poetici. L’arte è sempre indagine sul linguaggio”, così dichiara l’artista in una recente intervista. Questa, d’altra parte, l’ottica con cui lavora Paladino: contrario a dare chiavi di letture univoche e universali, spesso non definisce un significato preciso né un titolo per le sue opere, lasciando spazio alla libera interpretazione del singolo. Opere misteriose ed essenziali, figure frontali e ieratiche, colori presi dalla terra o inaspettatamente accesi.

Ecco allora che in questo percorso storico ci accoglie il grande Rosso silenzioso, dal quale spuntano facce scavate come maschere, o la testa-reliquario di San Gennaro, custodita in una elaborata e geometrica teca e circondata tutto intorno da scarpe di bronzo appese al muro, sostenute da piccoli passerotti. Quasi fossero dei voti fatti al santo. Uno dei pezzi forti dell’esposizione è quello che allora fu il rivoluzionario Silenzioso mi ritiro a dipingere un quadro, 1977, una stanza bianca decorata con segni dipinti di nero, croci, teste e numeri. Unici oggetti di arredamento una sedia di legno e un quadro figurativo appeso alla parete.

Fra le sale più affascinanti senza dubbio quella dedicata all’installazione dei Dormienti, trentadue sculture rannicchiate a terra, in posizione fetale, immerse nella penombra e circondate dalle musiche di David Monacchi, il giovane compositore marchigiano che Paladino ha voluto coinvolgere per questa collaborazione artistica. Le musiche, intitolate “Notte in mutazione”, ricordano i rumori della foresta, grilli, animali sibilanti, voli di uccelli notturni, che accompagnano il sonno di questi inquietanti dormienti fatti di legno, pietra e altri materiali poveri. Sporchi e rovinati, coperti da pezzi di vasi e tegole, polverosi e ruvidi, mantengono un’espressione serena durante il loro sonno eterno, così somiglianti ai corpi pietrificati di Pompei, ma anche così lontani, come tiene a precisare l’artista, che smentisce in modo assoluto ogni riferimento o affinità.

La mostra non si esaurisce però all’interno di Palazzo Reale, ma inizia, anzi, dalla piazzetta, con la monumentale Montagna di sale, dalla quale fuoriescono venti cavalli (riprendendo integralmente o per sezione la statua di un cavallo di quasi 4 metri di altezza), riedizione di un’altra Montagna di sale, esposta a Napoli in piazza del Plebiscito nel 1985. Un’istallazione che ben si adatta a dialogare con un’altra opera fondamentale, il Neon di Fontana che troneggia dall’alto del Museo del Novecento.

Ma non finisce qui. Nel cortile interno di Palazzo Reale sono posizionati quattro scudi di cinque metri di diametro ciascuno in terracotta, incisi con i segni e i simboli tipici di Paladino ma in versione tridimensionale. Il percorso si conclude idealmente nell’Ottagono della Galleria Vittorio Emanuele, in cui è esposto un aeroplano a grandezza naturale della Piaggio Aero, la cui livrea è stata dipinta dall’artista campano ma milanese di adozione.

Mimmo Paladino Palazzo Reale 7 aprile – 10 luglio 2011; orari: martedì, mercoledì, venerdì, domenica h 9.30 – 19.30. lunedì h 14.30 – 19.30. Giovedì e sabato h 9.30 – 22.30; costi: € 9,00 intero, € 7,50 ridotto

 

 

LE ANIME FRAGILI DI GIACOMETTI

Sono figure esili e sottili, fragili e a volte piccolissime, quelle che attendono il visitatore alla mostra su Alberto Giacometti, “L’anima del Novecento”, presso il MAGA, Museo d’Arte di Gallarate. Annette, Diego, Silvio, Bruno, Ottilia, questi sono i principali protagonisti delle opere di Giacometti, sculture e disegni, che raccontano e costruiscono un’antologia famigliare tutta particolare e densa di ricordi. Non è un caso che la maggior parte dei lavori esposti provenga dalla collezione privata della famiglia, che ha accettato per la prima volta di esporre pubblicamente in Europa alcuni delle opere più significative di uno dei maestri del Novecento.

Tutto nasce grazie al curatore della mostra, Michael Peppiat, autore di un interessante libro, “In Giacometti’s studio”, racconto-analisi di quel luogo straordinario che è stato lo studio di rue Hippolyte-Maindron a Parigi. Sì perché questo “atelier”, in realtà una stanza piccolissima e polverosa, è stato il mondo in cui Giacometti creò le sue incredibili sculture filiformi, il luogo in cui schizzò e disegnò ritratti di parenti e amici; un luogo, anche, estremamente evocativo dell’anima stessa di Giacometti: sempre in subbuglio, sempre affaccendato in più progetti contemporaneamente. Il tempo e lo spazio non gli bastavano mai, perennemente insoddisfatto delle sue creazioni, sempre alla ricerca della “testa perfetta”, come dice l’artista stesso in una video intervista. Ecco perché sulle pareti dello studio e della sua casa si possono vedere ancora oggi abbozzi e schizzi preparatori delle sue opere. Ogni superficie era un utile supporto creativo.

Esposti in mostra troviamo 95 opere in cui la moglie, i fratelli, il nipote, gli amici, sono tutti trasformati in busti modellati prima in argilla e poi in bronzo, lavorati con le dita, scavati nella carne, immagini famigliari che l’artista ha modellato in tutta rapidità, rispondendo ad un’urgenza interiore. Teste e busti che dagli anni ’40 in poi diventano di dimensioni minuscole, piccolissime, sovrastate quasi dal loro piedistallo, cambiamento che si può legare alla prematura morte della sorella Ottilia, davanti alla quale l’uomo e l’arte nulla può fare, se non rendersi conto della propria piccolezza e fragilità. Presenti anche opere di dimensioni maggiori e ben famose, quali Homme qui marche, Femme debout, corrosa ed evanescente, e Femme de Venise.

Sculture sottili ma allo stesso tempo pesanti: per colore, prevalentemente il nero, per materiale, il bronzo, ma soprattutto per i sentimenti che esprimono: malinconia, inquietudine, tristezza. Gli occhi non sono mai stati così tanto lo specchio dell’anima. Sono energumeni che prendono forma dalla materia grezza, ma che al tempo stesso rischiano di far ritorno a questa materia, sgretolandosi. Figure esili e precarie, appunto, create da Giacometti sulla scia del suo interesse per la filosofia esistenzialista. Non a caso era amico di Sartre. Lo dichiara lui stesso: “La fragilità è insita negli esseri umani (…) sempre con la minaccia di crollare”. Lo stare in equilibrio, il compiere movimenti è per Giacometti una meraviglia e un miracolo continuo.

Sculture ma non solo però. Una sezione ampia e importante è dedicata ai disegni e ai dipinti che il maestro creò per tutta la vita. Schizzi veloci, approntati su fogli qualunque, giornali, ricevute, libri, ma anche copie di opere classiche, studi preparatori, svaghi creativi. I dipinti infine rimarcano di nuovo la dimensione tutta famigliare dell’opera di Giacometti, riproponendo gli stessi soggetti, in una pittura che è un omaggio a Cezanne, a Boccioni, nei ritratti della madre, a Braque e a Francis Bacon. Alcuni ritratti sembrano fatti dalla sua stessa mano. Un’esposizione curata e ambiziosa, che vuol dare una visione globale del lavoro di Giacometti, della sua dimensione lavorativa (lo studio è sempre sullo sfondo), e della sua vita privata, così inscindibilmente legata alla sua arte.

Giacometti. L’anima del Novecento. Fino al 5 giugno, MAGA – Museo Arte Gallarate, Orari: 9.30 – 19.30 mar-dom. Chiuso lun., Costi: intero 9 €, ridotto 6 €

 

 

LA FORMAZIONE GIOVANILE DI CARAVAGGIO TRA VENEZIA E LA LOMBARDIA

Ritorno a Milano in grande stile di Vittorio Sgarbi, che firma una mostra, “Gli occhi di Caravaggio”, presso il Museo Diocesano, tutta da vedere e che non mancherà di catalizzare l’attenzione del grande pubblico. Già l’inaugurazione è stata un grande evento, che ha visto protagonisti anche il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, arrivato da Roma appositamente, e il presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni. Certo, dopo i nuovi tagli alla cultura appare buffo che certe autorità partecipino alle inaugurazioni di mostre e musei, ma questa è l’Italia. I nomi della mostra sono di gran richiamo, Caravaggio appunto, ma anche quello dello stesso Sgarbi che, si sa, nel bene e nel male fa sempre parlare di sé.

E’ bene però fare fin da subito alcune precisazioni su che cos’è questa mostra e su cosa si deve aspettare il visitatore, visto che questa non è una delle tante mostre su Caravaggio che si sono fatte in Italia fino ad oggi, ma ha un altro scopo. Per spiegare al meglio di cosa tratta questa mostra, è bene concentrasi, più che sul titolo, sul sottotitolo: “Gli anni della formazione tra Venezia e Milano”. Perché questo è l’obiettivo dell’esposizione, ricostruire il possibile itinerario svolto dal Merisi nella sua giovinezza, prima di trasferirsi a Roma nel 1592-93 circa. Se di sicuro si sa che il Caravaggio fu allievo di Simone Peterzano per quattro anni, dal 1584 al 1588, poco si sa di quegli anni e di quelli, totalmente avvolti nel buio, che precedettero il suo viaggio nella capitale.

La mostra, con le sue sessanta opere, crea un percorso geografico che ricrea i possibili viaggi fatti dal Merisi, come disse già nel 1929 Roberto Longhi: “…non si pretende di segnare itinerari precisi ai suoi viaggi (o siano pure vagabondaggi) di apprendista; ma non si potrebbe porli mai in altra zona da quella che da Caravaggio porta a Bergamo, vicinissima; a Brescia e a Cremona, non distanti; e di lì a Lodi e a Milano”. Già ai tempi dei suoi Quesiti caravaggeschi, il Longhi, pur credendolo ancora nativo del borgo di Caravaggio, tracciò quell’ideale itinerario di città e pittori che rappresentarono davvero gli albori della pittura del giovane Michelangelo Merisi.

Ecco allora che proprio su queste città si concentrano le cinque sezioni della mostra: Venezia, Cremona, Brescia, Bergamo e Milano. Al loro interno è possibile ammirare capolavori preziosi di Tiziano, Giorgione, Tintoretto, Lorenzo Lotto e Jacopo da Bassano, maestri veneti dalle incredibili abilità coloristiche e tonali; nella sezione di Cremona sono raccolti i diretti precedenti per i notturni e le pose caravaggesche, ovvero le enormi pale di Antonio e Vincenzo Campi; nella sezione di Brescia non possono mancare Savoldo e il Moretto, così come nella “rivale” Bergamo spadroneggiano i ritratti di Giovan Battista Moroni. E’ a Milano poi che troviamo i maestri più diretti del Merisi, come Simone Peterzano e altri artisti che probabilmente conobbe e da cui prese l’attenzione per la natura e la realtà: il Figino, Fede Galizia, Lomazzo, Giovanni Agostino da Lodi.

Questi i nomi importanti che conducono il visitatore a capire come sono nate, tra le altre, anche due opere di Caravaggio presenti in mostra: la Flagellazione di Cristo (1607-08), del Museo di Capodimonte, opera matura, posta accanto alle monumentali tele dei fratelli Campi (non si potrà non riconoscere gli stessi artifici); e la giovanile Medusa Murtola, seconda versione di quella più famosa Medusa esposta agli Uffizi. Anche una terza opera era prevista e indicata (dai giornali) come punto centrale della mostra: “Il riposo dalla fuga in Egitto” della galleria Doria Pamphilj di Roma, eseguita nei primi anni romani. Al momento, per motivi tecnici, il quadro non è ancora però esposto in mostra. Lo si attende con impazienza ma è da sottolineare come la presenza o meno di quell’opera non alteri il senso di un’esposizione che per la prima volta mette in luce le origini davvero lombarde del Caravaggio, mettendo fianco a fianco opere di pittori lombardi e veneti che il Merisi vide e di cui serbò memoria per tutta la sua breve, ma assolutamente rivoluzionaria, esistenza.

Gli occhi di Caravaggio. Gli anni della formazione tra Venezia e Milano. Museo Diocesano. Dal 10 marzo al 3 luglio. Orari: 10-18. Chiuso lunedì. Intero: euro 12. Ridotto: euro 10.

 

 

IL LASCITO DEI CLARK: GLI IMPRESSIONISTI E UN MUSEO RARO

Milano torna ad ospitare, a dieci anni di distanza dall’ultima volta, una vecchia passione, gli Impressionisti. E’ Palazzo Reale a presentare la prima tappa di un tour mondiale, che, partito da Williamstown, Massachusset, arriverà a toccare tante città importanti. 73 capolavori della collezione americana dello Sterling and Francine Clark Art Institute saranno esposti da qui a giugno per permettere anche al pubblico milanese di osservare opere importanti di maestri dell’Impressionismo come Monet, Manet, Sisley, Pissarro, Renoir, Degas, Caillebotte, Berthe Morisot e Mary Cassat (uniche due donne del movimento), e altri ancora.

Impressionisti ma non solo. L’esposizione comprende anche opere di artisti accademici dell’800, quali William-Adolphe Bouguereau, Jean-Léon Gérôme e Alfred Stevens, ma anche i pittori della cosiddetta “Scuola di Barbizon”, diretta precedente dell’Impressionismo, con nomi quali Corot, Rousseau e Millet. Una carrellata che ci porta però a conoscere anche alcune importanti opere di maestri del post-impressionismo, come Gauguin, con le contadine bretoni, Bonnard, con le sue ragazze colorate a campiture piatte, Daumier e, infine, il genio di Toulouse-Lautrec con i suoi ritratti pensosi e assorti.

Una mostra varia e variegata, divisa in 10 sezioni tematiche che analizzano i principali temi trattati dagli Impressionisti: la luce, l’impressione, la natura, il mare, il corpo, la città e la campagna, i viaggi, i volti, i piaceri e la società. Il percorso espositivo riunisce dunque i capolavori dei più grandi artisti francesi che, nelle loro varie evoluzioni e declinazioni, dal realismo, all’impressionismo al post-impressionismo, si sono confrontati con queste tematiche rivoluzionando il concetto di pittura e il ruolo dell’arte nella società borghese dell’epoca. Società con cui tutti gli artisti esposti si sono dovuti scontrare, spesso nel vero senso del termine.

La mostra propone quindi un percorso gradevole, una piacevole passeggiata da fare attraverso le sale, rimirando opere che ottennero successi strepitosi al Salon francese, luogo deputato per esporre opere di pittura accademica; ma anche opere, alcune davvero notevoli, che non furono nemmeno prese in considerazione ai tempi, e anzi furono assolutamente incomprese e schernite. Opere che, in realtà, portarono ad una rivoluzione totale dell’arte e del modo di dipingere, per tecnica e soggetti. Certo la mostra non brilla per avere capolavori a livello assoluto, ma questo è facilmente spiegabile raccontando la storia e il carattere di chi questa collezione mise insieme.

Robert Sterling Clark fu uno di quei personaggi fuori dalla norma, allora come oggi. Nato nel 1877 da una famiglia americana ricchissima (il nonno fu socio in affari di quel Singer delle macchine per cucire), ereditò una fortuna da parte di padre e di madre, e questo gli permise di vivere una vita agiata e lontana dalle preoccupazioni più banali. Spirito indomito, allergico alle formalità della sua famiglia, organizzò una spedizione di studio a cavallo nella Cina e ne scrisse un libro. Visti i rapporti tesi con uno dei fratelli, decise di sfuggire all’ambiente borghese di New York trasferendosi a Parigi. Tappa fondamentale questa, che gli permise, oltre che di iniziare a collezionare arte, anche di conoscere una graziosa attrice della Comédie-Française, Francine Clary, con la quale iniziò uno straordinario percorso di vita, e che sposò nel 1919.

Già dagli anni ’10 Clark iniziò a interessarsi e a comprare opere d’arte, per lo più dipinti, dei grandi maestri del Rinascimento italiano come Piero della Francesca e Ghirlandaio. Poi la sua passione s’indirizzò, quasi per caso, verso gli Impressionisti, conosciuti attraverso mercanti d’arte suoi amici. Uomo che non amava le luci della ribalta, Sterling iniziò la sua attività di collezionista quasi nell’ombra, scegliendo opere sì di grandi autori, ma che soprattutto colpivano e affascinavano lui e la moglie. Una scelta istintuale, lontana dalle logiche di mercato o dalle mode. E fu così che nel 1913 arrivò a comprare il suo primo Renoir, primo appunto, di oltre 30 quadri del maestro francese, che divenne il suo preferito in assoluto e di cui amò circondarsi esponendo queste opere nelle sue varie case. Se già dal 1913 aveva pensato ad organizzare un suo museo privato, solo a 70 anni Sterling arrivò a decidere di crearne uno suo per davvero.

Dopo una vita trascorsa tra New York, Parigi e la casa di famiglia dei Clark a Cooperstown, la coppia decise di creare un nuovo edificio in stile classico a Williamstown, Massachusset. Un’ala di questo palazzo, inaugurato nel 1955, divenne la loro casa, finché la morte non colse Sterling a poco più di un anno dalla creazione di questo museo. Un lascito importante, quello di Robert e Francine, fatto da un’incredibile collezione di dipinti ma anche di oggetti d’argento, porcellane, libri antichi, stampe e disegni. L’istituto fu corredato anche da una generosa donazione e da un’intelligente e liberale statuto che ha permesso all’istituzione di non essere solo un museo, ma anche un centro di ricerche di fama mondiale, promotore di attività e stanziamenti a favore dell’arte e delle persone che di arte si occupano. Quello stesso statuto permette che, anche oggi, la collezione venga accresciuta e integrata da nuovi acquisti, fatti sempre pensando a quei criteri di scelta che usavano Sterling e Francine e che hanno permesso l’acquisto di nove nuove opere presenti in questa mostra.

Gli impressionisti. I capolavori della Clark Collection. Palazzo Reale 2 marzo – 19 giugno 2011 Orari: lun. 14.30 – 19.30. Mar, mer, ven e dom 9.30 -19.30. Giov e sab 9.30 – 22.30 Biglietti: Intero € 9,00. Ridotto € 7,50

 

 

LA COMMEDIA DELLE ARTI DI SAVINIO

Prima settimana di apertura per una mostra affascinante quanto complessa. Protagonista è il grande “dilettante”, come amava definirsi lui, Alberto Savinio, al secolo Andrea De Chirico. Fratello proprio di “quel” De Chirico, Giorgio, che fu per certi versi più famoso di lui ma anche diversissimo, e proprio questo gli fece decidere di assumere il nome d’arte di Savinio. La mostra vuol essere un’antologica a tutto campo sull’arte saviniana, la più grande mai fatta da trent’anni a questa parte. Cento e più opere esposte, dipinti ma non solo, divise in cinque sezioni tematiche: mito, letteratura, architettura, oggetti e scenografie.

Sì, perché Savinio fu un artista a tutto tondo, di quelli eclettici che forse al giorno d’oggi non esistono più. Scrittore, pittore, compositore, drammaturgo, scenografo e regista teatrale. Scopo della mostra è proprio il ripercorrere tutte le attività a cui si interessò nel corso della vita, analizzando temi e modi del suo linguaggio. La mostra, curata da Vincenzo Trione (lo stesso curatore dell’epica mostra di Dalì chiusa un mese fa), propone un incipit e una fine di percorso molto particolari. La voce di Toni Servillo, infatti, accoglie il visitatore nella prima e nell’ultima sala, declamando a gran voce testi e pensieri di Savinio. Perché solo con le parole di Savinio si può capire l’arte e il Savinio-pensiero. Non sproloqui di critici, esperti ecc., ma parole vere, autentiche del maestro, che tanto lasciò scritto e che tanto si prodigò affinché la sua arte fosse spiegata per ciò che era veramente.

Difficile inquadrare Savinio a priori, in qualche corrente artistica predefinita. Certo, conobbe i Surrealisti, certo suo fratello fu esponente di spicco della Metafisica. Ma Savinio elaborò una poetica tutta sua, non convenzionale neanche per queste correnti di rottura. Apollinaire, amico dei De Chirico ed estimatore dell’opera di Savinio, disse di lui che era “grande come i geni del Rinascimento toscano”. Nato in Grecia, rimase profondamente influenzato dalla cultura classica di quella terra, tanto che dipinse a più riprese miti classici ed eroi, fino a identificarsi con Hermes, il più misterioso e ambiguo dio dell’Olimpo. Per Savinio la pittura deve essere antinaturalistica, non deve mai assomigliare alla realtà, deve essere un mezzo per guardare oltre. E’ operazione mentale, concettuale, esercizio della mente.

L’importante è l’idea, ed è per questo che ogni medium può essere valido: pittura, disegni, teatro, parole. I riferimenti culturali sono tanti, dalla monumentalità della pittura italiana degli anni ’20 e ’30, alla rivista “Valori Plastici”, all’architettura razionalista, ma è presente anche il mondo dell’infanzia, con le famose “Isole dei giocattoli”, mausolei riferiti a un tempo e a un periodo scomparsi per sempre; i miti greci, la letteratura, con omaggi all’amico Apollinaire; l’ossessione per le aperture, finestre che mettono in scena, teatralmente, potremmo dire, i soggetti dipinti; e ancora donne e uomini in abiti e interni borghesi, omaggio ai suoi familiari, ma con la faccia di galli, pellicani, struzzi e anatre, creature mutanti di un altro mondo. Concludono questo surreale percorso oggetti, abiti, mosaici e decorazioni create da Savinio nelle sue sperimentazioni, per terminare con la bellissima sezione teatrale in cui sono esposti disegni, bozzetti e maquette dei suoi spettacoli, di cui fu spesso regista e drammaturgo. “Io sono un pittore oltre la pittura”, disse. Oggi non possiamo che dargli ragione.

Alberto Savinio. La commedia dell’arte Palazzo Reale. Fino al 12 giugno.
Orari: 9.30-19.30; lun. 14.30-19.30; giov. e sab. 9.30-22.30. Biglietti: intero 9 euro, ridotto 7,5 euro.

 

 

questa rubrica è a cura di Virginia Colombo

rubriche@arcipelagomilano.org


 



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