31 maggio 2011

MILANO. MORTI E FERITI, ABBIAMO VINTO


Surprise, surprise! I Milanesi non hanno obbedito alle indicazioni del massimo ideologo della sinistra (allargata) il filosofo Massimo Cacciari e ciononostante hanno vinto alle elezioni. Questa volta niente dati, non ne voglio citare neppure uno, quando la valanga è così grande mettersi a contare i decimi di percentuale è un’attività che appare troppo al di sotto del momento. Cerchiamo invece di capire il significato di quello che è successo.

Tra le tante posizioni espresse in questi ultimi mesi in vista del voto quella di Cacciari è la più significativa, non solo per         l’autorevolezza del personaggio (che, tra l’altro, essendo stato per due mandati sindaco di una città particolare come Venezia, ha la possibilità di gettare sul tavolo di discussione una rilevante esperienza) ma anche perché esprime una posizione che occupa il fuoco centrale del discorso. E l’ha occupato da molto tempo, in larga misura condizionando la strategia politica del PD e della sinistra in senso lato.

Lo stesso Cacciari aiuta a sintetizzare questa posizione quando, ancora oggi, dopo il ballottaggio, “invita ad allargare al centro”. In termini molto semplificati è evidente che la somma dei raggruppamenti tradizionali della sinistra, variamente chiamata Ulivo, Unione, Cespugli, Triciclo, la nomenclatura politico mediatica è molto fertile, non riesce a garantire una maggioranza stabile. Quasi, ma non del tutto perché vi sono al suo interno molti cleavages tradizionali, l’anticomunismo che separa dal core i socialisti, i radicali, i cattolici di sinistra, l’estremismo verbale che introduce faglie nell’altro senso, tutte posizioni poi esasperate dal patriarcalismo irrinunciabile nella politica italiana che fa sì che ogni raggruppamento proietti la sua riconoscibilità su un leader che a sua volta contribuisce per interessi di sopravvivenza personale ad accentuare le differenze. E’ un ragionamento banalmente aritmetico che le forze addizionate di questa coalizione potenziale possono al massimo produrre una maggioranza risicata facilmente soggetta a ricatti e tendenze centrifughe.

La grande sapienza politica e umana di Romano Prodi ha prodotto quello che credo possa essere giudicato il massimo della capacità di leadership in queste condizioni. La deduzione meccanica che occorra allargare ad altre forze è elementare, quasi un truismo, il problema è cosa significhi quest’affermazione in concreto. Sinora la risposta è partita o dall’aggregazione di unità esistenti o dalla creazione di coalizioni estese al centro. La prima risposta è stata il PD, che però ha subìto subito spinte centrifughe. L’idea è accattivante, ma la sua realizzazione irta di difficoltà. La “vocazione maggioritaria” è rimasta una bella parola. La periodica riproposizione di estensione di una coalizione “di sinistra” al centro ha individuato via via dei soggetti che, come prima reazione hanno detto di no: la Lega, CL, come suggerisce Sergio Scalpelli che lavora in team con Cacciari, il Terzo Polo, variamente configurato, leaders del centro, Albertini eccetera. L’operazione si è sempre rivelata una coperta troppo stretta se la sposti alla testa lascia scoperti i piedi e viceversa.

Dall’altra parte ha finora funzionato meglio: grazie alla presenza di Silvio Berlusconi, con la sua spregiudicatezza e i suoi soldi e alla riuscita di un accordo triumvirale con Bossi e Fini che rappresenta l’unico atto veramente da grande uomo politico di Silvio Berlusconi, e anche la forza per molto tempo invincibile della sua compagine. Solo che il difficile equilibrio si è usurato perché conteneva un baco: Fini era il delfino (Bossi non avrebbe potuto farlo) ma chi teneva il pallino era la Lega, che a sua volta era tenuta per le narici dai soldi delle fideiussioni sottoscritte da Berlusconi per salvare il partito del Nord dalle catastrofi economiche dell’insipienza padana. In un gioco a tre, come si sa da una lunga storia di commedie e romanzi, ma anche dalle analisi sociologiche delle triadi, a la Georg Simmel, finisce sempre che due si alleano contro il terzo. Alle esigenze di garantire stabilità a una situazione scivolosa, Berlusconi ha dato una risposta che appariva nuova ed era certamente innovativa (ma non tutto il nuovo è necessariamente anche buono: la risposta cesarista. Non era nuova perché gli italiani l’avevano già provata e si è dimostrata pessima, come non pochi avevano previsto da subito.

Le ragioni per le quali la risposta cesarista è portatrice di danni sono state abbondantemente studiate e sono note, ma più di recente sono state esplicitate e riprese da Amartya Sen che ha dimostrato come, contrariamente a quanto crede la vulgata comune, il cesarismo sia particolarmente inefficiente nelle situazioni di crisi perché il decisore non riceve le corrette informazioni e, se queste sono contrarie ai propri interessi, non le utilizza. Purtroppo in una cultura come quella italiana, fortemente dominata dal modello patriarcale la pulsione ad adottare un modello cesaristico nei momenti di crisi è molto forte. Perdipiù la cultura patriarcale diffusa fa sì che il modello cesaristico sia familiare in molti campi, da quello della famiglia, scusate il bisticcio di parole, e dei rapporti affettivi in generale, in cui è nato e si perpetua, a quello della religione, in cui il binomio Pontefice-Madonna fornisce il perfetto modello della sinergia e della composizione tra il mondo della durezza del potere e quello della tenerezza remediale dell’eros (i miracoli li fa soprattutto la Madonna) a quello dei rapporti di lavoro, e, infine, a quello della politica in cui trova la sua sintesi più generale.

Il modello cesarista è caratterizzato dall’eliminazione o attenuazione dei sistemi intermedi di checks and balances, che contraddistinguono invece il modello di democrazia rappresentativa. Non è quindi affatto casuale che il berlusconismo abbia da subito cominciato ad attaccare tutto il sistema di garanzie, a partire dai magistrati, con il pretesto di essere perseguitato. Ma c’erano già i precedenti della Nuova democrazia di Gelli e della Grande Riforma di Craxi. Quando ho sentito parlare per la prima volta di Grande Riforma, ho pensato subito alla riforma della Pubblica Amministrazione che è il grande tallone d’Achille del sistema italiano. Poi ho capito che invece si parlava del potere politico: mi ricordo perfettamente una frase di Claudio Martelli che cercava di spiegare come avrebbe funzionato il sistema “presidenziale”: “Se si elegge direttamente il Primo Ministro, poi a cascata tutte le altre cariche fino al Sindaco seguiranno la stessa logica”. E’ avvenuto in un certo senso il contrario: per il Sindaco il modello è stato istituzionalizzato e, più o meno, ha funzionato, più o meno ma ha funzionato, anche se con molte possibili deviazioni, tra cui quella dell’esautoramento del consiglio, vedi Letizia Moratti.

A livello del Primo ministro invece abbiamo avuto una situazione anomala, invece di perseguire una trasformazione istituzionale dibattuta, ma poi alla fine concordata in qualche forma di compromesso istituzionale, si è lasciato il terreno a un’estenuante guerriglia istituzionale. Pisapia è riuscito a far saltare le strettoie di questo letto di Procuste politico, con un blitz accuratamente e lungamente preparato ed eseguito con coraggio facendo un bel sacco di morti di cui non dobbiamo dolerci. Facciamo un elenco dei morti sul campo, è utile non solo per capire cosa sia accaduto, ma anche per capire chi ha vinto e chi continuerà a vincere se non sbaglia le mosse.

Il primo grande cadavere è Berlusconi: Berlusconi è politicamente un dead man walking: niente può illustrare questo concetto meglio della scenetta da “Peppino, Totò e la malafemmina” che Berlusconi ha interpretato al G8 è un pezzo “cult”. Un signore inceronato dal volto terreo, con le borse sotto gli occhi, impettito nel suo simil-Caraceni, guata Obama dall’altra parte della stanza, con l’abilità istintiva degli attaccabottoni da cocktail per trovare il momento adatto: poi scatta con passo rapido e si precipita dal fotografo (che probabilmente parla l’inglese e così Berlusconi deve comunicare per cenni che sono comprensibili a tutti: “adesso vado vicino a Obama e tu mi inquadri con lui”). Poi si precipita addosso a uno sgomento Obama e lo investe a bassa voce. La foto che compare su tutti i giornali del mondo dovrebbe, nelle intenzioni del poveraccio, rientrare nella serie “Berlusconi salva l’Occidente” con un fumetto che dice qualcosa di fondamentale come: “So dove è nascosto Geddafi”, ma l’onnipresente microfono impietosamente coglie una sorta di guaito “La Ilda mi perseguita”.

Pare che lo sciagurato sia andato a ripetere la solfa a tutti i potenti della terra facendo scadere il paese, come dice giustamente Serra, a bettola brianzola con l’ubriacone di turno che arpiona gli avventori per raccontare loro le sue sfortune coniugali. Alcuni anni fa il povero Mauro Mancia aveva molto competentemente diagnosticato uno stato patologico e non molto tempo dopo la signora Veronica aveva lanciato un appello agli amici stretti chiedendo la loro collaborazione per aiutare un malato. La colpa più grave dei collaboratori e amici di Berlusconi è stata proprio quella di non aver risposto a quest’appello: invece di essere circondato da un gruppo di amici che lo sostengono e lo consigliano nel bene, Berlusconi, come avviene per molti satrapi e com’è anche avvenuto per Mussolini, si è trovato solo, circondato da una coorte di sicofanti che gli hanno restituito un’immagine distorta: “Meno male che Silvio c’è”.

Così si è avviato all’ultima sfida convinto che la sua faccia facesse ancora miracoli e dopo “avercela messa” si è dovuto rendere conto (si fa per dire) che invece di fare miracoli la sua faccia affondava con il candidato. Non basta, perché i diadochi insistono: “Berlusconi risorgi”! Basterebbe questa grottesca supplica per documentare cosa sia un partito cesarista, in cui si discute senza che nessuno scoppi a ridere di riprendere l’iniziativa, di fare le primarie o alternativamente di fondare un nuovo partito, mentre si scatena una guerra senza quartiere tra le diverse fazioni ed emergono tutti gli episodi di devastazione e corruzione che inevitabilmente sono il risultato delle cricche che circondano i cesari grandi e piccoli di tutte le ere. Berlusconi, politicamente, ma anche umanamente parlando è a terra, mentre l’arbitro sta contando, e ancora alcuni suoi stanno accapigliandosi sotto il ring per il programma di rilancio: per dare un’idea del livello cui è giunto il grottesco, si ventila l’idea di contrapporre a Tremonti un formidabile trio belligerante costituito nientemeno che da ABF, Alfano, Brunetta e Frattini. Ma domani sarà qualcun altro, che so io CPQ, Cicchitto, Prestigiagomo Quagliariello, la ruota gira: per Crozza e gli altri un patrimonio inesauribile di buon umore cui attingere.

Non so se possiamo inserire la Signora Brichetto Moratti e consorte nell’elenco dei deceduti: con i soldi ci sono molte vie di recupero. Quello che è stato ucciso dall’ironia di migliaia di giovani e meno giovani scatenati sulla rete, è il modello atroce del sciurettismo lombardo con il birignao e la cotonatura, le mises alla Scala e il sorriso plastificato pronto a trasformarsi in un ghigno e in un’azzannata non appena si parli di soldi. E con questo modello è morto, spero per sempre, il mito delle elezioni all’americana con i soldi dilapidati a fiumi nella convinzione, ahimè radicata, che basti comunicare bene per convincere.

Molti anni fa il grande cabarettista americano Tom Lehrer, che era anche un professore di matematica, si prendeva gioco delle fisime del tempo sulla incomunicabilità (ricordate il genere Antonioni?) e a un certo punto di una canzone si rivolge a chi si lamentava di non riuscire a comunicare bene intimandogli ” If you cant communicate, shut up!” (Se non riesci a comunicare chiudi il becco). Dopo il crack del primo turno, è stato tutto un chirp chirp di leghisti e forzisti che si lamentavano di non essere riusciti a comunicare; ancora la sera del 30 da Lerner il ciellino Amicone si chiedeva come mai la Moratti non era riuscita a comunicare mentre Pisapia sì. Prevedo una valanga di dotti testi sulla campagna di Pisapia, ma non c’è segreto: Pisapia era sincero mentre la Signora Brichetto riusciva a comunicare bene una sola cosa: la sua infingardaggine. “Mama, la gata me varda, la dis che sun busiarda”, gatta molto perspicace. La campagna della signora Moratti e della Lega ha comunicato solo odio e fango, che gli è ritornato indietro sotto forma d’ironia, canzoni in una sorta di colossale judo mediatico-cibernetico in cui ogni porcata veniva metabolizzata, sterilizzata, riverniciata e rilanciata con lo sberleffo. I consulenti americani della signora Moratti, o più probabilmente i consulenti locali che avevano visto film come “Our Brand is Crisis” (2006) e si credevano James Carville. Spero che la famiglia Moratti li licenzi tutti e se non ha ancora pagato che blocchi i pagamenti, non se li meritano.

Più in generale lo schema teorico che ha imprigionato l’azione, o meglio l’inazione, della sinistra in questi anni, è la visione meccanicistica e statica dell’elettorato, come una torta o pie-chart i cui spicchi sono definiti una volta per tutti e il gioco consiste solo nell’elaborare uno schema di azione capace di inglobare la porzione più grande possibile del centro immobile, tramite accordi di coalizione. Non è così, la torta non è una torta ma un bolo di mercurio su un foglio di carta e vince quello che è più bravo a raccoglierne la maggior parte senza disperdere il resto in frammenti impazziti, ci vuole mano leggera e una azione chimica più che meccanica. C’è tutta una dirigenza di sinistra che, diciamo la verità, è stata ipnotizzata da Berlusconi, che ammira i suoi exploit tattici con l’apprezzamento che i veri professionisti hanno per chi è più bravo di loro. Ma proprio per questo le prediche di chi si perde dietro l’abilità di Berlusconi e dei vari guru in the box sono state paralizzanti. Il risultato è stato un colossale “miedo a ganar” che porta a rifiutare ogni tentativo di innovazione. Nelle parole dell’occhiello sulla Stampa nell’articolo di commento al primo turno di Ricolfi (Mercoledì 18 Maggio) si legge “ha ragione Ferrara.Il centro-destra è alle corde, ma fa male la sinistra a cantare vittoria, è egemonizzata dalle estreme” p. 13. A parte il ridicolo (che dovremmo fare metterci a piangere perché l’elettorato ha dato un cazzotto in faccia a Berlusconi e Moratti?) un’affermazione così la può fare Ferrara che ha un rapporto piuttosto vago con la realtà, ma non può essere ripresa come verità autorevole da chi si picca di essere preciso. Fassino sarebbe un estremista? Fa ridere. Il Pd di Bologna sarebbe composto di estremisti? C’è da sganasciarsi. Chi è l’estremista? Bersani? Ragazzi!Il più estremo della compagine è Vendola che al di là delle alate parole sul buonismo mondiale, non si è mai sentito dire nulla di lontanamente comparabile alle volgarità estreme dette da Berlusconi, con le sue barzellette sulle cameriere, dalla Moratti-dai-colpi-bassi (nel senso che si spara nei garretti) dalla Santanché (con-quella-bocca-può-dire-quello-che-vuole e, modestamente, lo disse) eccetera. Sarebbe estremista Pisapia? L’elettorato milanese ha già risposto con un NOOO! da 300mila e passa voti, e con altri 50mila il 29 Maggio. Sul Corriere anche il Prof. Della Loggia, svegliatosi come Rip Van Winkle dopo ventanni, annuncia solennemente la scoperta dell’ultima ora ” Le elezioni non si vincono con la TV e con gli annunci”. Bravo, peccato che invece così è avvenuto per ventanni e allora occorrerebbe chiedersi chi ha dato una mano all’ipnosi collettiva. Forse il “miedo a ganar” era diffuso un po’ dovunque.

Cosa non ci è stato detto dai dirigenti del PD locale di Milano quando abbiamo liberamente (e sottolineo) scelto Pisapia con le primarie! La più bizzarra delle teorie che si sentirono in quell’occasione fu che poiché il PD era il maggior partito aveva il dovere, oltre al diritto, di presentare un proprio candidato alle primarie. Detto e fatto, il candidato PD, che era di prima qualità, ha perso, tra l’altro, proprio perché targato PD. Io credo che guadagneremo tutti, a partire dal PD, che è il mio partito, il giorno in cui la dirigenza si convincerà che questo PD non è “il partito egemone della sinistra”, ma al massimo un primus inter pares, che però deve guadagnarsi questa qualifica ogni giorno sul campo e contemporaneamente, se praticassimo un po’ di quella “recovery of nerve” che secondo Peter Gay fu la preparazione per l’illuminismo alla fine del Medioevo forse ci aiuterebbe a vedere più chiaro. Poco prima del ballottaggio scrivevo: “La battaglia per il ballottaggio non è finita, non si vince fino a che l’ultimo voto sarà contato e dall’altra parte hanno moltissimi soldi. Ma la Grande Guerra contro il gangsterismo berlusconiano è già cominciata ed è cominciata dal basso: questo è il vero fatto rilevante.”.

Oggi sono in grado di ribadire, nell’elenco dei cadaveri c’è anche un certo modo di concepire la politica: nei dibattiti che sono seguiti quasi nessuno dei commentatori sembra essersene accorto: appare come se il successo di Pisapia fosse un colpo di genio, un fortunato “concept” di qualche mago della comunicazione. Ma la campagna di Pisapia è stata una vastissima costruzione dal basso, mai tentata in passato dalla sinistra tradizionale (e sottolineo quest’affermazione) che ha coinvolto migliaia di persone, soprattutto, ma non solo giovani. Mentre scorrevano le immagini arancione di piazza del Duomo, nello studio dell’Infedele, per uno strano scherzo del destino mediatico si vedeva su un monitor in bianco e nero una conferenza con D’Alema e Casini dietro al solito tristissimo tavolinetto da “brutto salotto marron” a la Paolo Conte che reinterpretavano la solita operetta (ha ragione Berlusconi a parlare di teatrino della politica, solo che lui ha introdotto il genere pochade). E questo modo di concepire la politica come incontro tra leaders dietro a tavoli e tavolinetti che è stato sepolto dalla risata di Elio e le storia tese e dello “straordinario mondo di Pisapie”.

Molti non se ne sono ancora accorti e, mi spiace dirlo, persino Vendola che ha cercato di arraffare un pezzettino della vittoria di Pisapia cercando di rubargli il palco, non si è accorto di aver fatto una delle peggiori operazioni del repertorio della vecchia politica, in inglese si chiama piggybacking e in italiano “mosca cocchiera”. Il contributo alla campagna Vendola l’aveva dato, nessuno glielo negava, non aveva alcun bisogno di sprecare parte del suo credito facendo la corsarata sul palco di Pisapia e annegando buona parte della felicità sincera in una retorica bolsa che suonava insincera come un doblone della Perugina. Speriamo che impari anche Vendola. In conclusione però possiamo dire che con il vecchio modo di fare politica sono morte anche alcune parole odiose del berlusconismo manipolatorio, in primo luogo la “gente” con la sua controparte di sinistra “moltitudini”. Cioè l’idea che le persone formino agglutinazioni di masse indistinte di “gente” (folk) senza faccia o di moltitudini perennemente in movimento in cerca del profeta e in attesa dell’occasionale guru pronto a guidarle.

Le persone che a migliaia hanno affollato le piazze di Milano e delle altre città in decine decine di manifestazioni riunioni multicolori dai viola, ai precari agli studenti sui tetti erano visibilmente chiaramente “popolo ” (people) con volti distinguibili, facce riconoscibili di persone attive, coscienti e determinate, di tutte le età e condizioni sociali, che si aggiungevano al popolo creativo della Rete non in un contrapposizione, ma in collaborazione con il popolo delle piazze esprimendo quella creatività inesauribile che viene dalla tranquilla coscienza di sé e delle proprie esigenze senza paura.

E questo è l’ultimo cadavere che Pisapia è riuscito a spazzare via, la paura. Paura di parlare delle moschee, dei ROM, dei gay, degli immigrati di tutti i fantasmi di cui non si doveva parlare perché avrebbero spaventato “la gente”. Pisapia e la sua squadra hanno aiutato tutti noi ad accendere la luce a cacciare via i fantasmi e a non aver paura di parlare di qualsiasi cosa rappresenti un problema una questione che assieme dobbiamo affrontare e risolvere. Cosa cantava quella bella ragazza che accompagnava i movimenti contro la segregazione dopo che centinaia di giovani avevano affrontato la violenza con la non violenza nelle città del Mississippi e dell’Alabama? “We are not afraid, We are not afraid, We are not afraid, TODAY. Oggi non abbiamo più paura.

Guido Martinotti



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