26 aprile 2011

PIAZZALE LORETO: MAI COME OGGI TABÙ METROPOLITANO


Per rappresaglia nell’agosto del 1944, quindici prigionieri politici vengono fucilati, per ordine delle SS, da un plotone di volontari della Muti. I milanesi che percorrono piazzale Loreto la mattina del 10 agosto, vedono i loro corpi martoriati, a un lato della piazza: “Erano uno addosso all’altro pieni di mosche, sotto un sole tremendo, chi con le braccia aperte, chi rannicchiato, chi a schiena in su, qualcuno con gli occhi spalancati nel terrore”. La testimonianza è di Camilla Cederna (“Milano in guerra“, Feltrinelli). Avvertito, pare che Mussolini dica: “Il sangue di piazzale Loreto lo pagheremo molto caro” (Ricciotti Lazzero, “Le brigate nere“, Rizzoli).

In quei mesi del 1944 fino alla Liberazione e oltre la Liberazione, piazzale Loreto diventa luogo sacro dell’antifascismo, luogo simbolo della rivincita, meta di pellegrinaggi pure nella clandestinità, come racconta il giovane partigiano vicentino Luigi Meneghello (in “Bau-Sete“, Rizzoli), che nel piazzale per onorare i martiri si reca dopo l’incontro con la vedova di uno di quei morti. Alfonso Gatto, in quei mesi, scrive una poesia: “Era l’alba, e dove fu lavoro, / ove il Piazzale era la gioia accesa/ della città migrante alle sue luci/ da sera a sera, ove lo stesso strido/ dei tram era saluto al giorno, al fresco/ viso dei vivi, vollero il massacro/ perché Milano avesse alla sua soglia/ confusi tutti in uno stesso sangue/ i suoi figli promessi e il vecchio cuore/ forte e ridesto stretto come un pugno”.

Dopo la Liberazione, il 27 aprile, le colonne partigiane dell’Oltrepo Pavese traversano Milano e si raccolgono in piazzale Loreto, accolte da una folla in festa. Il giorno dopo, nel pomeriggio del 28, succede con gli uomini di Cino Moscatelli, scesi dalla Valsesia. In piazzale Loreto dunque, il 29 aprile, non a caso il colonnello Valerio scarica i cadaveri di Mussolini, di Claretta Petacci, degli altri gerarchi. Li abbandona sul selciato nello slargo da tempo prescelto per la vendetta antifascista: Mussolini quasi addosso a Claretta, in mezzo alla folla, che insulta come può quei corpi, infine appesi tutti, il capo, l’amante e i suoi gerarchi, ai tralicci di un distributore di benzina, non solo per accontentare sguardi lontani, ma anche per confermare una certezza: il dittatore è morto.

“La sconcia bestia è stata appesa”, scriverà Carlo Emilio Gadda (“Lettere agli amici milanesi“, il Saggiatore). Lo strazio dei cadaveri è confermato dalle autopsie: capo deforme, per sfacelo scheletrico completo, volto sfigurato… Anche in quello scempio è la rivalsa: quanti partigiani appesi, impiccati agli alberi, inforcati nei ganci di macelleria… Esporre, lasciare i cadaveri senza sepoltura, era, alla moda fascista, la sanzione della rivolta, il disprezzo ostentato per il nemico (il corpo insepolto è offerto all’oltraggio del tempo, del sole e della pioggia, degli animali, sottratto nel disfacimento alla sua umanità). La punizione chiede altrettanto.

Ma subito emergono i dubbi: il popolo è stato costretto a giustiziare il proprio tiranno, lo spettacolo è stato però “orribile”, come scrive l’Avanti. Quale popolo? Un’avanguardia giacobina, come sostiene l’Unità, o quella stessa folla che solo una manciata di mesi prima plaudiva lo stesso tiranno? Dunque, immediatamente, si impone la domanda chiave che ritroveremo: la Resistenza fu un movimento popolare o ebbe un carattere minoritario? Come conclude lo storico Sergio Luzzatto in un bel libro (cui devo molto), “Il corpo del duce” (Einaudi): “Ecco, agli occhi dei partigiani più avvertiti, il paradosso del 29 aprile 1945: lo spettacolo di piazzale Loreto ricordava anche troppo quello di piazza Venezia”. Quel paradosso innerverà il dibattito sulla natura dell’antifascismo e della lotta armata in Italia. Nella certezza della giustizia, ma nel dubbio dell’eccesso e nella vergogna dei trasformismi, piazzale Loreto rimane nella memoria, ma nell’angolo di una memoria, che lascia ai margini i quindici martiri (per loro c’è una lapide sommersa dal traffico) e accoglie la fine di Mussolini e degli altri come un “orribile” eccesso più che come la conclusione, inevitabile, necessaria, dopo tanta barbarie.

Piazzale Loreto diventa sommessamente un tabù, scavalcato solo da qualche violenza verbale di anni ormai lontani (“a piazzale Loreto c’è sempre tanto posto”). Non è il luogo di un’esecuzione decisa legittimamente da un tribunale, ma di una esposizione. Ricordo la reticenza a parlarmene di mio padre, mutilato di guerra, che era stato tra gli spettatori. A questo punto, nell’ignoranza diffusa e coltivata della storia, potremmo aspettarci di tutto. In fondo pochi giorni fa un consiglio di zona propose di affiggere una targa a ricordo di Luisa Ferida e di Osvaldo Valenti, amici dei torturatori di Villa Triste. Alla fama incerta di piazzale Loreto contribuisce persino l’urbanistica: piazzale Loreto, malgrado l’imponenza, anche simbolica, della tragedia che si lascia alle spalle, è un “non luogo”, come concluderebbe Augè.

Oreste Pivetta



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