29 marzo 2011

MERCATO IMMOBILIARE: LO SCHIAFFO DELLA MANO INVISIBILE


Percorrendo sia in lungo che in largo la “città infinita” si nota che la sequenza indistinta di palazzine residenziali, capannoni industriali, villette a schiera e centri commerciali ora appare assai spesso inframmezzata da scheletri di semicostruzioni, gru che protendono bracci inerti, cantieri deserti e abbandonati. Scorrendo inoltre le vetrine e i depliant delle numerose agenzie immobiliari proliferano gli annunci per improbabili “affittasi” e “vendesi” per ogni tipologia e metratura di unità abitativa. Scomparse però le diciture “immerse nel verde” (ahimè alquanto ridotto e malridotto) sostituite invece da allettanti “caratteristiche ecologiche” e avanzate “classi di risparmio energetico”. Ma non è certo possibile rottamare il ragguardevole patrimonio esistente che allo stato risulta invenduto e sfitto, come non appare in alcun modo “ecologico” lo sbancamento dei residui prati e campi coltivati.

L’intreccio perverso tra deregulation legislativa statale e regionale, fame di introiti da costruzione per ristorare magri bilanci comunali, dislocazione degli investimenti dai settori produttivi a quelli finanziari e immobiliari ha raggiunto (forse, non c’è limite al peggio) l’epilogo: la bolla immobiliare è esplosa in parallelo con la crisi produttiva e occupazionale; la droga del mattone ha prodotto un coma da overdose. L’eccesso di offerta ha causato la classica “crisi di sovrapproduzione”, come da bigino del marxismo, prendendo in contropiede i teorici dello spontaneo riequilibrio. La “mano invisibile” si è ribellata, mollando un sonoro ceffone ai fautori a oltranza del “meno stato e più mercato”.

Il fronte dei pubblici poteri appare, in questa situazione, l’anello debole. I sindaci pro-tempore troppo spesso si adeguano al meccanismo scellerato che lega le entrate destinate alle spese correnti alla svendita dei “gioielli di famiglia”, ovvero i beni territoriali, paesaggistici e ambientali ereditati da generazioni. Anche sul fronte ambientalista e di sinistra non si è posta sufficiente attenzione alla endemica compromissione del territorio, a differenza del movimento per la difesa dell’acqua pubblica che ha prodotto una vasta mobilitazione e il referendum. Eppure anche la terra, come l’acqua, l’aria e le fonti energetiche (i quattro vecchi elementi empedoclei) ha natura di “bene comune” che precede e accompagna ogni pur legittima forma di utilizzo privato.

Ma è l’ideologia liberista egemone, adagiata sugli allori del trionfo non solo sulla opposta utopia collettivista bensì anche su meri interventi regolatori della libera iniziativa (come da art. 41 Cost.) a ricevere l’imprevisto manrovescio. Se l’avaro è un capitalista maniaco e il capitalista è un avaro raziocinante, il primo ha preso il sopravvento sul secondo. Il principio di avidità, secondo il quale il metro cubo comunque costruito vale di più del metro quadrato nudo, ha guidato un espansione senza regole, tenuto conto che il contrappeso pubblico, in teoria impegnato alla funzione di vincolo e salvaguardia, è nella sostanza saltato. I Comuni, rivendicando una “autonomia” malintesa ed esasperata, hanno di fatto rifiutato ogni forma di pianificazione sovra ordinata e coordinata, basata su previsioni d’insieme ragionate e realistiche, ignorando che il mercato immobiliare (in parallelo col mercato del lavoro) agisce in un medesimo bacino quantomeno metropolitano, e che pertanto le scelte dell’uno (a cominciare ovviamente da Milano e dal suo recente e sconvolgente PGT) si ripercuotono automaticamente sugli altri secondo la legge dei “vasi comunicanti”.

Come se ne esce? Alla Grande Depressione la storia economica, in alternativa alle tesi catastrofiste e rivoluzionarie, ha offerto la risposta keynesiana: un massiccio intervento dello Stato per sopperire agli investimenti privati, sostenere la domanda e riequilibrare gradualmente il sistema. Nella nostra specifica situazione tuttavia lo Stato e le sue articolazioni, per note ragioni finanziarie e politiche, non appaiono in grado di far fronte a tali gravose e impegnative incombenze. Non è da sottovalutare allora il rischio che questo vuoto venga riempito dall’anti-stato. Come hanno messo in luce recenti autorevoli allarmi è proprio la criminalità organizzata, infiltrata nell’economia legale, che può permettersi di immobilizzare a lungo termine e investire in diritti volumetrici, approfittando dell’effetto combinato della crisi del settore e dell’indebolimento di regole e controlli. La finanziarizzazione del mattone espone pertanto a seri rischi per la legalità e la democrazia, anche al Nord e anche qui attorno.

Da notare per altro che l’organizzazione delle “locali” della ndrangheta copre in modo strategico i poli dell’area metropolitana. Ragion per cui risulta miope e riduttivo insistere, come ha fatto al di là della buona intenzione l’opposizione di Palazzo Marino nella legislatura che sta per concludersi, per istituire una commissione antimafia “comunale” visto che le basi malavitose stanno fuori dai confini del comune, magari a Corsico o a Buccinasco, o addirittura fuori provincia (dopo la incongrua separazione brianzola) a Desio e a Seregno! Se invece il grave problema fosse affrontato nella dimensione della Città Metropolitana, per altro lodevolmente evocata nel programma di Pisapia, questa proposta, doverosa in vista dell’Expo, risulterebbe assai più convincente e adeguata.

Valentino Ballabio

 



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