29 marzo 2011

arte


ALL’HANGAR BICOCCA VA IN SCENA L’ATTO TERZO

Prosegue con la mostra Alcuni camminano nella pioggia, altri semplicemente si bagnano il terzo quarto di Terre Vulnerabili, progetto in quattro parti, a cura di Chiara Bertola, presso l’Hangar Bicocca. La mostra, contrassegnata dal tema della vulnerabilità, è un progetto fortemente innovativo già dall’idea di partenza. Le quattro mostre infatti hanno preso forma attraverso vari incontri tra la curatrice e gli artisti, e ciascuno di loro ha ideato e sviluppato il proprio lavoro accordandolo a quello degli altri. Ma innovativa lo è anche nella modalità di esposizione: quattro mostre per un periodo di sette mesi, in quattro fasi come quelle lunari (l’ultima sarà ad aprile) per un totale di trenta artisti nazionali e internazionali con altrettante opere aggiunte fase dopo fase.

Il titolo della terza esposizione è molto poetico, Alcuni camminano nella pioggia altri semplicemente si bagnano, e vuol essere un’indicazione, una direzione da prendere. Lasciarsi bagnare dalla pioggia significa essere senza protezioni, vulnerabili appunto, ma allo stesso tempo significa avere la volontà di lasciarsi suggestionare da ciò che stiamo per scoprire camminando, incedendo nel percorso. Il titolo è quindi un invito a lasciarsi invadere dalle sensazioni, in uno stato che si attraversa e dal quale allo stesso tempo si è attraversati. Vuol essere la consapevolezza che in quel momento ci si sta bagnando, che si sta entrando in contatto con qualcosa di imprevisto ma che si decide di non evitare. Non una chiave di lettura obbligata dunque, ma piuttosto l’invito a lasciarsi andare e a farsi trasportare dai vuoti e dai pieni, dalle luci e dalle ombre, dagli elementi leggeri come il vento e dalle emozioni, dai suoni delicati e forti, che costituiscono l’essenza e i materiali delle opere esposte.

La terza mostra vede la presenza di quattro nuovi artisti: Massimo Bartolini, Marcellvs L. e Franz West, nomi noti, più una novità: Ludovica Carbotta, selezionata per il Progetto Chiavi in mano sostenuto da Fondazione Cariplo, allo scopo di dare gli strumenti necessari di formazione, produzione, divulgazione e promozione del proprio lavoro a chi esordisce nel mondo dell’arte contemporanea. Questi quattro artisti che si aggiungono al gruppo rappresentano personalità molto diverse tra loro, con lavori differenti per dimensioni e materiali, alcuni di forte impatto emozionale, altri più concettuali; in tutti il concetto di vulnerabilità è declinato in modo personale, scopo che sta alla base della mostra stessa. Tutti i lavori sono site-specific, studiati apposta per lo spazio di Hangar Bicocca, permettendo così a ogni artista di utilizzare l’enorme spazio per creare qualcosa di specifico appunto, trovando qui la propria ispirazione. I loro lavori vanno ad aggiungersi a quelli degli artisti del primo e secondo quarto, seguendo l’idea di uno spazio in continuo mutamento, che cresce nel tempo e modifica la visione di quanto già esposto.

Tra i progetti della nuova fase interessante è l’installazione di Marcellvs L., che ha registrato i suoni prodotti dal trasporto di un pianoforte a coda sui canali della laguna veneziana e che ha preso il posto delle dissonanze create dai vasi di ghiaccio ora scomparsi di Elisabetta Di Maggio. Anche la grotta di cera Wax, Relax di Invernomuto inizia a sciogliersi lentamente, mentre sul lato opposto il labirinto di Yona Friedman aggiunge un piano, rendendosi così ulteriormente disponibile ad accogliere opere degli artisti in mostra. La Mona Lisa dei Gelitin e l’opera di Alice Cattaneo hanno cambiato non solo configurazione ma anche luogo. Per le loro opere Massimo Bartolini, Franz West e Ludovica Carbotta invece hanno scelto la verticalità, dialogando con l’architettura dello spazio circostante e con quella dei Palazzi Celesti di Anselm Kiefer.

Terre Vulnerabili 3/4 Alcuni camminano nella pioggia, altri semplicemente si bagnano – Hangar Bicocca
dall’11 marzo, l’ultimo quarto l’11 aprile Orario: tutti i giorni dalle 11.00 alle 19.00, giovedì dalle 14.30 fino alle 22.00, lunedì chiuso Ingresso: intero 8 euro, ridotto 6 euro

 

 

LA FORMAZIONE GIOVANILE DI CARAVAGGIO TRA VENEZIA LOMBARDIA

Ritorno a Milano in grande stile di Vittorio Sgarbi, che firma una mostra, “Gli occhi di Caravaggio”, presso il Museo Diocesano, tutta da vedere e che non mancherà di catalizzare l’attenzione del grande pubblico. Già l’inaugurazione è stata un grande evento, che ha visto protagonisti anche il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, arrivato da Roma appositamente, e il presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni. Certo, dopo i nuovi tagli alla cultura appare buffo che certe autorità partecipino alle inaugurazioni di mostre e musei, ma questa è l’Italia. I nomi della mostra sono di gran richiamo, Caravaggio appunto, ma anche quello dello stesso Sgarbi che, si sa, nel bene e nel male fa sempre parlare di sé.

E’ bene però fare fin da subito alcune precisazioni su che cos’è questa mostra e su cosa si deve aspettare il visitatore, visto che questa non è una delle tante mostre su Caravaggio che si sono fatte in Italia fino ad oggi, ma ha un altro scopo. Per spiegare al meglio di cosa tratta questa mostra, è bene concentrasi, più che sul titolo, sul sottotitolo: “Gli anni della formazione tra Venezia e Milano”. Perché questo è l’obiettivo dell’esposizione, ricostruire il possibile itinerario svolto dal Merisi nella sua giovinezza, prima di trasferirsi a Roma nel 1592-93 circa. Se di sicuro si sa che il Caravaggio fu allievo di Simone Peterzano per quattro anni, dal 1584 al 1588, poco si sa di quegli anni e di quelli, totalmente avvolti nel buio, che precedettero il suo viaggio nella capitale.

La mostra, con le sue sessanta opere, crea un percorso geografico che ricrea i possibili viaggi fatti dal Merisi, come disse già nel 1929 Roberto Longhi: “…non si pretende di segnare itinerari precisi ai suoi viaggi (o siano pure vagabondaggi) di apprendista; ma non si potrebbe porli mai in altra zona da quella che da Caravaggio porta a Bergamo, vicinissima; a Brescia e a Cremona, non distanti; e di lì a Lodi e a Milano”. Già ai tempi dei suoi Quesiti caravaggeschi, il Longhi, pur credendolo ancora nativo del borgo di Caravaggio, tracciò quell’ideale itinerario di città e pittori che rappresentarono davvero gli albori della pittura del giovane Michelangelo Merisi.

Ecco allora che proprio su queste città si concentrano le cinque sezioni della mostra: Venezia, Cremona, Brescia, Bergamo e Milano. Al loro interno è possibile ammirare capolavori preziosi di Tiziano, Giorgione, Tintoretto, Lorenzo Lotto e Jacopo da Bassano, maestri veneti dalle incredibili abilità coloristiche e tonali; nella sezione di Cremona sono raccolti i diretti precedenti per i notturni e le pose caravaggesche, ovvero le enormi pale di Antonio e Vincenzo Campi; nella sezione di Brescia non possono mancare Savoldo e il Moretto, così come nella “rivale” Bergamo spadroneggiano i ritratti di Giovan Battista Moroni. E’ a Milano poi che troviamo i maestri più diretti del Merisi, come Simone Peterzano e altri artisti che probabilmente conobbe e da cui prese l’attenzione per la natura e la realtà: il Figino, Fede Galizia, Lomazzo, Giovanni Agostino da Lodi.

Questi i nomi importanti che conducono il visitatore a capire come sono nate, tra le altre, anche due opere di Caravaggio presenti in mostra: la Flagellazione di Cristo (1607-08), del Museo di Capodimonte, opera matura, posta accanto alle monumentali tele dei fratelli Campi (non si potrà non riconoscere gli stessi artifici); e la giovanile Medusa Murtola, seconda versione di quella più famosa Medusa esposta agli Uffizi. Anche una terza opera era prevista e indicata (dai giornali) come punto centrale della mostra: “Il riposo dalla fuga in Egitto” della galleria Doria Pamphilj di Roma, eseguita nei primi anni romani. Al momento, per motivi tecnici, il quadro non è ancora però esposto in mostra. Lo si attende con impazienza ma è da sottolineare come la presenza o meno di quell’opera non alteri il senso di un’esposizione che per la prima volta mette in luce le origini davvero lombarde del Caravaggio, mettendo fianco a fianco opere di pittori lombardi e veneti che il Merisi vide e di cui serbò memoria per tutta la sua breve, ma assolutamente rivoluzionaria, esistenza.

Gli occhi di Caravaggio. Gli anni della formazione tra Venezia e Milano. Museo Diocesano. Dal 10 marzo al 3 luglio. Orari: 10-18. Chiuso lunedì. Intero: euro 12. Ridotto: euro 10.

 

 

IL LASCITO DEI CLARK: GLI IMPRESSIONISTI E UN MUSEO RARO

Milano torna ad ospitare, a dieci anni di distanza dall’ultima volta, una vecchia passione, gli Impressionisti. E’ Palazzo Reale a presentare la prima tappa di un tour mondiale, che, partito da Williamstown, Massachusset, arriverà a toccare tante città importanti. 73 capolavori della collezione americana dello Sterling and Francine Clark Art Institute saranno esposti da qui a giugno per permettere anche al pubblico milanese di osservare opere importanti di maestri dell’Impressionismo come Monet, Manet, Sisley, Pissarro, Renoir, Degas, Caillebotte, Berthe Morisot e Mary Cassat (uniche due donne del movimento), e altri ancora.

Impressionisti ma non solo. L’esposizione comprende anche opere di artisti accademici dell’800, quali William-Adolphe Bouguereau, Jean-Léon Gérôme e Alfred Stevens, ma anche i pittori della cosiddetta “Scuola di Barbizon”, diretta precedente dell’Impressionismo, con nomi quali Corot, Rousseau e Millet. Una carrellata che ci porta però a conoscere anche alcune importanti opere di maestri del post-impressionismo, come Gauguin, con le contadine bretoni, Bonnard, con le sue ragazze colorate a campiture piatte, Daumier e, infine, il genio di Toulouse-Lautrec con i suoi ritratti pensosi e assorti.

Una mostra varia e variegata, divisa in 10 sezioni tematiche che analizzano i principali temi trattati dagli Impressionisti: la luce, l’impressione, la natura, il mare, il corpo, la città e la campagna, i viaggi, i volti, i piaceri e la società. Il percorso espositivo riunisce dunque i capolavori dei più grandi artisti francesi che, nelle loro varie evoluzioni e declinazioni, dal realismo, all’impressionismo al post-impressionismo, si sono confrontati con queste tematiche rivoluzionando il concetto di pittura e il ruolo dell’arte nella società borghese dell’epoca. Società con cui tutti gli artisti esposti si sono dovuti scontrare, spesso nel vero senso del termine.

La mostra propone quindi un percorso gradevole, una piacevole passeggiata da fare attraverso le sale, rimirando opere che ottennero successi strepitosi al Salon francese, luogo deputato per esporre opere di pittura accademica; ma anche opere, alcune davvero notevoli, che non furono nemmeno prese in considerazione ai tempi, e anzi furono assolutamente incomprese e schernite. Opere che, in realtà, portarono ad una rivoluzione totale dell’arte e del modo di dipingere, per tecnica e soggetti. Certo la mostra non brilla per avere capolavori a livello assoluto, ma questo è facilmente spiegabile raccontando la storia e il carattere di chi questa collezione mise insieme.

Robert Sterling Clark fu uno di quei personaggi fuori dalla norma, allora come oggi. Nato nel 1877 da una famiglia americana ricchissima (il nonno fu socio in affari di quel Singer delle macchine per cucire), ereditò una fortuna da parte di padre e di madre, e questo gli permise di vivere una vita agiata e lontana dalle preoccupazioni più banali. Spirito indomito, allergico alle formalità della sua famiglia, organizzò una spedizione di studio a cavallo nella Cina e ne scrisse un libro. Visti i rapporti tesi con uno dei fratelli, decise di sfuggire all’ambiente borghese di New York trasferendosi a Parigi. Tappa fondamentale questa, che gli permise, oltre che di iniziare a collezionare arte, anche di conoscere una graziosa attrice della Comédie-Française, Francine Clary, con la quale iniziò uno straordinario percorso di vita, e che sposò nel 1919.

Già dagli anni ’10 Clark iniziò a interessarsi e a comprare opere d’arte, per lo più dipinti, dei grandi maestri del Rinascimento italiano come Piero della Francesca e Ghirlandaio. Poi la sua passione s’indirizzò, quasi per caso, verso gli Impressionisti, conosciuti attraverso mercanti d’arte suoi amici. Uomo che non amava le luci della ribalta, Sterling iniziò la sua attività di collezionista quasi nell’ombra, scegliendo opere sì di grandi autori, ma che soprattutto colpivano e affascinavano lui e la moglie. Una scelta istintuale, lontana dalle logiche di mercato o dalle mode. E fu così che nel 1913 arrivò a comprare il suo primo Renoir, primo appunto, di oltre 30 quadri del maestro francese, che divenne il suo preferito in assoluto e di cui amò circondarsi esponendo queste opere nelle sue varie case. Se già dal 1913 aveva pensato ad organizzare un suo museo privato, solo a 70 anni Sterling arrivò a decidere di crearne uno suo per davvero.

Dopo una vita trascorsa tra New York, Parigi e la casa di famiglia dei Clark a Cooperstown, la coppia decise di creare un nuovo edificio in stile classico a Williamstown, Massachusset. Un’ala di questo palazzo, inaugurato nel 1955, divenne la loro casa, finché la morte non colse Sterling a poco più di un anno dalla creazione di questo museo. Un lascito importante, quello di Robert e Francine, fatto da un’incredibile collezione di dipinti ma anche di oggetti d’argento, porcellane, libri antichi, stampe e disegni. L’istituto fu corredato anche da una generosa donazione e da un’intelligente e liberale statuto che ha permesso all’istituzione di non essere solo un museo, ma anche un centro di ricerche di fama mondiale, promotore di attività e stanziamenti a favore dell’arte e delle persone che di arte si occupano. Quello stesso statuto permette che, anche oggi, la collezione venga accresciuta e integrata da nuovi acquisti, fatti sempre pensando a quei criteri di scelta che usavano Sterling e Francine e che hanno permesso l’acquisto di nove nuove opere presenti in questa mostra.

Gli impressionisti. I capolavori della Clark Collection. Palazzo Reale 2 marzo – 19 giugno 2011 Orari: lun. 14.30 – 19.30. Mar, mer, ven e dom 9.30 -19.30. Giov e sab 9.30 – 22.30 Biglietti: Intero € 9,00. Ridotto € 7,50

 

 

LA COMMEDIA DELLE ARTI DI SAVINIO

 

Prima settimana di apertura per una mostra affascinante quanto complessa. Protagonista è il grande “dilettante”, come amava definirsi lui, Alberto Savinio, al secolo Andrea De Chirico. Fratello proprio di “quel” De Chirico, Giorgio, che fu per certi versi più famoso di lui ma anche diversissimo, e proprio questo gli fece decidere di assumere il nome d’arte di Savinio. La mostra vuol essere un’antologica a tutto campo sull’arte saviniana, la più grande mai fatta da trent’anni a questa parte. Cento e più opere esposte, dipinti ma non solo, divise in cinque sezioni tematiche: mito, letteratura, architettura, oggetti e scenografie.

Sì, perché Savinio fu un artista a tutto tondo, di quelli eclettici che forse al giorno d’oggi non esistono più. Scrittore, pittore, compositore, drammaturgo, scenografo e regista teatrale. Scopo della mostra è proprio il ripercorrere tutte le attività a cui si interessò nel corso della vita, analizzando temi e modi del suo linguaggio. La mostra, curata da Vincenzo Trione (lo stesso curatore dell’epica mostra di Dalì chiusa un mese fa), propone un incipit e una fine di percorso molto particolari. La voce di Toni Servillo, infatti, accoglie il visitatore nella prima e nell’ultima sala, declamando a gran voce testi e pensieri di Savinio. Perché solo con le parole di Savinio si può capire l’arte e il Savinio-pensiero. Non sproloqui di critici, esperti ecc., ma parole vere, autentiche del maestro, che tanto lasciò scritto e che tanto si prodigò affinché la sua arte fosse spiegata per ciò che era veramente.

Difficile inquadrare Savinio a priori, in qualche corrente artistica predefinita. Certo, conobbe i Surrealisti, certo suo fratello fu esponente di spicco della Metafisica. Ma Savinio elaborò una poetica tutta sua, non convenzionale neanche per queste correnti di rottura. Apollinaire, amico dei De Chirico ed estimatore dell’opera di Savinio, disse di lui che era “grande come i geni del Rinascimento toscano”. Nato in Grecia, rimase profondamente influenzato dalla cultura classica di quella terra, tanto che dipinse a più riprese miti classici ed eroi, fino a identificarsi con Hermes, il più misterioso e ambiguo dio dell’Olimpo. Per Savinio la pittura deve essere antinaturalistica, non deve mai assomigliare alla realtà, deve essere un mezzo per guardare oltre. E’ operazione mentale, concettuale, esercizio della mente.

L’importante è l’idea, ed è per questo che ogni medium può essere valido: pittura, disegni, teatro, parole. I riferimenti culturali sono tanti, dalla monumentalità della pittura italiana degli anni ’20 e ’30, alla rivista “Valori Plastici”, all’architettura razionalista, ma è presente anche il mondo dell’infanzia, con le famose “Isole dei giocattoli”, mausolei riferiti a un tempo e a un periodo scomparsi per sempre; i miti greci, la letteratura, con omaggi all’amico Apollinaire; l’ossessione per le aperture, finestre che mettono in scena, teatralmente, potremmo dire, i soggetti dipinti; e ancora donne e uomini in abiti e interni borghesi, omaggio ai suoi familiari, ma con la faccia di galli, pellicani, struzzi e anatre, creature mutanti di un altro mondo. Concludono questo surreale percorso oggetti, abiti, mosaici e decorazioni create da Savinio nelle sue sperimentazioni, per terminare con la bellissima sezione teatrale in cui sono esposti disegni, bozzetti e maquette dei suoi spettacoli, di cui fu spesso regista e drammaturgo. “Io sono un pittore oltre la pittura”, disse. Oggi non possiamo che dargli ragione.

Alberto Savinio. La commedia dell’arte Palazzo Reale. Fino al 12 giugno.
Orari: 9.30-19.30; lun. 14.30-19.30; giov. e sab. 9.30-22.30. Biglietti: intero 9 euro, ridotto 7,5 euro.

 

 

TESTE COMPOSITE, RIDICOLE E REVERSIBILI. TRA LEONARDO E CARAVAGGIO, L’ARCIMBOLDO RISCOPERTO

Dopo la grande mostra di Parigi del 2007, finalmente anche Milano celebra un suo grande artista con un’esposizione importante e densa di contenuti e nuove scoperte. L’artista in questione è ovviamente Giuseppe Arcimboldi, meglio conosciuto come “l’Arcimboldo”, genio venerato dai contemporanei, dimenticato dalla critica dei secoli scorsi, riscoperto e osannato solo dai Surrealisti in poi.

Una mostra, quella allestita a Palazzo Reale, che ha come scopo quello di reinserire nel contesto milanese d’origine l’Arcimboldo e la sua cultura figurativa, che proprio qui si formò, e soprattutto cercare di capire il motivo che spinse Massimiliano II d’Asburgo a volerlo alla sua corte. Ecco perché le undici sezioni della mostra tracciano un excursus lungo ed esaustivo, da Leonardo al giovane Caravaggio, sul clima artistico che caratterizzò gli anni giovanili dell’Arcimboldo.

Si parte allora con i magnifici disegni di Leonardo e dei suoi seguaci, fondamentali per capire il punto di partenza per la creazione delle famose “teste” arcimboldiane. Fu Leonardo, infatti, studiando e disegnando volti di vecchi, personaggi tipizzati e infine volti apertamente caricaturali, che diede il via a quel genere di disegni, declinati sotto varie forme e aspetti dai suoi allievi. Melzi, Figino, Luini, Della Porta, De Predis, Lomazzo e altri ancora sono solo alcuni dei nomi presentati in mostra, con disegni che ci mostrano non solo lo studio attento dei volti ma anche la rivoluzionaria apertura alla natura e alla sua descrizione analitica iniziata sempre dal maestro fiorentino e trasmessa ai suoi allievi, come Cesare da Sesto.

Per capire il clima della Milano del ‘500, la seconda sezione introduce a quello che era il fiore all’occhiello della città in quel secolo, le arti suntuarie. Botteghe di armaioli, cristallai, ricamatori, orafi, intagliatori di gemme e tessitori, i cui prodotti erano richiestissimi dalle corti di tutta Europa. Milano capitale del lusso e delle nuove tendenze non solo ora, ma anche cinque secoli fa. Si prosegue con i primi lavori giovanili di Arcimboldo, le vetrate del Duomo realizzate sui suoi disegni, a confronto con quelle del padre Biagio, artista di una generazione precedente, ancora estraneo ai tormenti manieristici; e il grande arazzo del duomo di Como realizzato sempre su un suo cartone.

La sezione successiva è dedicata agli studi naturalistici, illustrazioni di piante e animali, con disegni autografi dell’Arcimboldo stesso, attraverso i quali si potrà capire il lato scientifico del Rinascimento e la smania di collezionismo dei signori di tutta Europa attraverso la creazioni di Wunderkammer, “camere delle meraviglie”, in cui racchiudere tutte le rarità, le stranezze e anche le mostruosità della natura. L’allestimento, curatissimo in ogni dettaglio, aiuterà il visitatore a entrare nello spirito dell’epoca, con la ricostruzione di parte di un vero studiolo cinquecentesco.

Si arriva infine a quelli che sono i dipinti più famosi e ammirati dell’Arcimboldo, le Quattro Stagioni, qui presenti nelle tre versioni esistenti, quelle di Monaco, di Vienna e del Louvre. Un’occasione unica per confrontarle e vederne gli sviluppi stilistici, con anche una nuova scoperta. Si ritiene infatti che la prima versione, quella di Monaco (1563), sia stata fatta dal giovane Arcimboldi a Milano e portata come dono di presentazione agli Asburgo nel 1562. Non più dunque un’origine d’oltralpe, ma un’ulteriore conferma che le Stagioni si situano nella tradizione milanese delle teste iniziata da Leonardo e analizzata nella prima sezione.

Oltre alle Teste, si potranno ammirare anche i 4 Elementi, mezzi busti umani ma costruiti con oggetti e animali relativi ai diversi elementi naturali: pesci e animali marini per l’Acqua, armi da fuoco, candele e acciarini per il Fuoco, una incredibile varietà di volatili per l’Aria, elefanti, alci e cinghiali per la Terra. Animali studiati nel dettaglio di cui si possono riconoscere fino a cinquanta specie diverse per opera. Arcimboldo come straordinario pittore naturalista in linea con gli interessi del secolo.

Passando attraverso i disegni degli accademici della Val di Blenio, che aprirono la tradizione della poesia dialettale milanese e ripresero le teste di Leonardo in senso fortemente caricaturale, si arriva alla “sala delle feste”, dove sono stati ricostruiti anche due esempi di apparati effimeri. L’austera Milano di san Carlo Borromeo era però anche la Milano degli sfrenati festeggiamenti del Carnevale, delle mille occasioni per inscenare balli, feste pubbliche, tornei e sfilate in costume. Arcimboldo fu un grande ideatore di eventi e costumi speciali, tanto che si pensa sia stata la sua abilità in questo campo a farlo conoscere all’imperatore; in questa sezione sono presentati alcuni disegni originali (in ogni senso) di vestiti e modelli per apparati trionfali dedicati a Massimilano II.

L’Arcimboldo ebbe un gran successo presso la corte asburgica, tanto che lo volle presso di sé anche il successore di Massimiliano, Rodolfo II, che decise di lasciarlo tornare in patria solo a 61 anni, come ci dice in modo “camuffato” l’Arcimboldo stesso in un suo bellissimo autoritratto, con la promessa però di continuare a mandargli dipinti e disegni. Eccolo dunque creare le sue opere più ammirate dai contemporanei, la Flora (ora dispersa), e il Vertunno, straordinario ritratto dell’imperatore in veste del dio, creato attraverso frutti composti insieme e osannato dagli umanisti del tempo attraverso rime, madrigali e panegirici.

Oltre che alle “teste ridicole”, il Bibliotecario e il Giurista, mezzi busti creati con gli elementi tipici del proprio mestiere, Arcimboldo dipinse anche due bellissimi esempi di “teste reversibili”, l’Ortolano e la Canestra di frutta. Se guardati a prima vista, le composizioni sembrano rappresentare solo una banale natura morta. Se rovesciati, appunto, questi due dipinti ci mostrano nuovamente due ritratti, due volti, creati con un perfetto assemblaggio di ortaggi e frutta. Un divertissement pregiato e ricercato per l’epoca.

Si arriva infine all’ultima opera di Arcimboldo, tra l’altro di recente scoperta e attribuzione: la Testa delle quattro stagioni dell’anno, un mix di tutti gli elementi naturali già usati in precedenza, per andare a creare forse la sua opera somma. Chissà che il giovane Caravaggio, che abitava a poca distanza dal grande artista, non abbia visto le sue nature morte assolutamente innovative e moderne, e sia partito proprio da lì per ripensare, a suo modo, questo tema.

Insomma una mostra ben curata, scientificamente innovativa, che anche grazie all’allestimento assolutamente suggestivo, permetterà di comprendere appieno e sotto nuova luce un’artista per molti secoli ingiustamente dimenticato.

Arcimboldo. Artista milanese tra Leonardo e Caravaggio. Palazzo Reale, 10 febbraio – 22 maggio 2011
Orari: tutti i giorni 9.30-19.30, Lunedì 14.30-19.30, Giovedì e Sabato 9.30-22.30.
Costi: Intero € 9,00. Ridotto € 7,50

 

 

questa rubrica è a cura di Virginia Colombo

rubriche@arcipelagomilano.org



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