21 settembre 2016

ARCHISTAR MALEDETTE ARCHISTAR

La città e la nuova committenza


Vittorio Gregotti due settimane fa prendendo spunto dal convegno del febbraio scorso alla Triennale «Archistar sì archistar no» ha titolato il suo articolo “Architettura, giustizia più libertà”. Personalmente sono d’accordo con Gregotti e vorrei accodarmi a lui con qualche considerazione non certo da critico dell’architettura, non è il mio mestiere, ma utili forse perché nel dibattito in corso sul destino delle aree postexpo aleggia il fantasma delle archistar e forse aleggerà anche a proposito delle aree degli ex scali ferroviari e di qualche piazza milanese.

01editoriale30fbChi ci sia nel Who’s Who delle archistar non saprei dire con esattezza, Wikipedia ne fa a modo suo un elenco: è certo che quando sento parlare di “archistar” la prima cosa che mi viene in mente sono le multinazionali, e non mi fanno simpatia. Fortunatamente, per il momento almeno, non ci sono in vista possibili fusioni o concentrazione tra archistar altrimenti tra qualche tempo ci troveremmo una Monsanto dell’architettura come quella delle sementi.

Perché non amo le multinazionali? Ovviamente per il pericolo che egemonizzino il mercato ma soprattutto per il concetto che hanno di se stesse: sono grande, sono famosa, sono un bene dell’umanità e nessuno può giudicare me e la mia cultura. Un po’ come certe archistar.

Ma la domanda che viene spontanea è: come si diventa archistar e col favore di chi? Ovviamente non possiamo negare che creatività, professionalità, competenza, capacità organizzative e genio siano gli ingredienti indispensabili ma un ruolo essenziale hanno anche il capitale iniziale investito, che non è da tutti, e pure la partecipazione a tanti e costosi concorsi, per non dire della capacità di fare marketing e autopromuoversi. Del favore di chi ha bisogno un’archistar? Dei committenti privati e di quelli pubblici. Degli uni e degli altri vorrei dire qualcosa.

I committenti privati hanno le loro logiche: sanno quello che vogliano e sanno molto bene quanto intendano investire per soddisfare le proprie esigenze funzionali e quanto vogliano investire in immagine. Per questi committenti un’archistar riconosciuta facilita i rapporti con le autorità cittadine: riesce con la sua cosiddetta notorietà a far “digerire” dall’amministrazione edifici con eccesso di simbolismo per forma e/o per altezza, anche se in qualche caso stride palesemente con le preesistenze, col cosiddetto genius loci.

I committenti pubblici sono tutt’un altro discorso: la decisione di scegliere nel mazzo delle archistar rappresenta una sorta di debolezza culturale e di incapacità di essere un committente capace di interpretare nel modo migliore l’interesse e la cultura della collettività che rappresentano. Una debolezza che emerge con drammatica evidenza quando si tratti di cogliere il senso e il significato dello spazio pubblico generato dagli edifici, dal loro insieme e dal rapporto che un nuovo spazio pubblico ha con il resto della città.

Lo spazio pubblico che si va a generare “deve” essere in sintonia con la società che lo vivrà, con la sua cultura, con la sua composizione sociale, con le sue abitudini di vita e ovviamente avrà un suo ruolo specifico rispetto ad altri spazi pubblici esistenti. Una sintonia non facile da cogliere perché richiede una profonda conoscenza della cosiddetta “civitas” che si acquisisce solo facendone intensamente parte per un periodo sufficientemente lungo di tempo in modo da storicizzare il passato e cogliere il futuro.

Questo approccio è arduo sia per chi ha una certa età sia per chi, in maniera “castale” (la classe politica), si estranei dalla società e la viva solo come luogo di esercizio del proprio potere.

Il discorso poi dell’età ha il suo peso: a mano a mano che si avanza negli anni la prospettiva del futuro si accorcia e si tende o a mostrare scarso interesse al poi, al dopo di noi o a veleggiare nel territorio dell’utopia ideologica o a voler perpetuare la memoria di sé, che da morti non conta, con un ultimo gesto pesante.

Al riguardo, banalmente, osservo da un lato che l’età di molte delle cosiddette archistar è avanzata (*) e dall’altro che lo spaziare senza radici per il mondo rende difficile mettersi in sintonia con una città in particolare.

Il committente pubblico può chiedere a un’archistar quella che ho chiamato “sintonia”? Con successo? Ne dubito perché in genere sono altri i suoi interessi. Quello che può fare, che anzi dovrebbe fare, è avere lui stesso questa sintonia per trasferirla all’architetto senza lasciarsi né travolgere dalla “via di minor attrito” scegliendo un’archistar per coprirsi le spalle da facili critiche né dall’ambizione di avere in città un pezzo firmato: la “griffe” dell’architettura. Per dirla tutta dovrebbe essere un committente serio.

Solo della “sintonia” si deve parlare per un committente pubblico? Credo che si debba chiedergli di avere una visione olistica del processo edilizio, di tutte le sue relazioni di tipo antropocenico, ossia l’attenzione a tutti gli effetti dell’azione umana.

Oggi invece le archistar, e non solo loro, ci offrono un’edilizia in qualche caso tecnologicamente avanzata e molto spesso solo attenta al risparmio energetico (che nessuno a posteriori controlla): non è poco ma non basta.

Aspettando la smart-committenza pubblica e forse meno archistar.

Luca Beltrami Gadola

 

(*) Archistar
Rem Koolhaas, nato nel 1944, Helmut Swiczinsky, leader di Coop Himmelbau, nel 1944, Frank Gehry nel 1929, Jean Nouvel nel 1945, Renzo Piano nel 1937, Santiago Calatrava nel 1951, Steven Holl nel 1947, Herzog e de Meuron entrambi nel 1950, Norman Foster nel 1935.

 

 



Condividi

Iscriviti alla newsletter!

Per ricevere in anteprima sulla tua e-mail gli articoli di ArcipelagoMilano





Confermo di aver letto la Privacy Policy e acconsento al trattamento dei miei dati personali




Ultimi commenti