7 settembre 2010

ETICHE DI MARE 2


 

Non di etica ma di etichetta, anzi di etiquette istituzionale si è invece parlato molto a proposito del mancato invito alla festa del PD del (contestato) governatore del Piemonte Sergio Cota. Il primo a insorgere è stato Sergio Chiamparino che sta facendo una difficile operazione di convivenza (non voglio dire alleanza perché non credo che di questo si tratti) con la lega e che si è visto sottrarre la presentazione di un libro con Maroni e ha protestato perché si sarebbe trattato di un caso di poca eleganza istituzionale e di commistione tra giustizia e politica. Ha calcato la dose Michele Salvati con una doppia proposta, che mi sono parse una più balzana dell’altra (in effetti credo che Salvati ci facesse veramente). E cioè che Bersani avrebbe dovuto rimediare a questa gaffe chiedendo scusa a Cota, con la schiena dritta come Gary Cooper con il chepì della legione straniera in Beau geste, ma al contempo pregandolo di dimettersi.

Mi scuso con Chiamparino e Salvati, ma a me sembra che la vera gaffe sarebbe stata proprio quella di invitarlo, il Cota. Infatti il galateo e le buone maniere che esso impone (se la politica deve rifarsi alle buone pratiche borghesi come si richiede) trovano un limite fondamentale nel principio più generale delle buone maniere che è quello di non creare imbarazzo nei convitati: “Non parlare di corda in casa dell’impiccato”, raccomanda la saggezza popolare. E le signore della buona borghesia sanno che non devono invitare nella stessa sera due coniugi in conflitto coniugale, la vedova con l’amante del defunto o il creditore e il debitore defaulted e neppure persone notoriamente in conflitto tra di loro. Del resto basta fare un piccolo esperimento mentale: che cosa avrebbe potuto dire Cota invitato dalle stesse persone che hanno messo in dubbio la legittimità della sua elezione? Tanto più se poi i dirigenti del PD una volta avutolo sul palco gli avrebbero dovuto, sempre secondo la proposta Salvati, notificare la richiesta di dare le dimissioni per il bene comune. Non so quale gesto la Lega faccia in questi casi, ma posso immaginarmelo.

Ho l’impressione che si confondano i livelli, non dire parolacce all’avversario non significa essere che il dibattito politico dovrebbe seguire le regole dei don di Oxford o Harvard che discettano con i loro allievi seduti sull’erba dei commons nei colleges, secondo le regole del contendere applicabili anche alla guerra dei nobili “tirez vous les Anglais” “nous ne tirerons jamais les premiers” e via con il tormentone Alphonse/Gaston. Purtroppo i nostri oppositori (per carità non avversari) hanno dato concreta volontà di seguire regole ben diverse, dimostrando a tutto il mondo di essere capaci di cafonate da curva sud anche a casa della Regina di Inghilterra. Ma il galateo c’entra poco, anche quello istituzionale, c’entra invece, e molto, una linea politica dell’opposizione e in particolare del PD che ne è la spina portante. Il punto “politico” di fondo è questo.

Il PD deve continuare a dedicare la grande parte dei suoi sforzi a dimostrare (poi si dovrebbe chiarire a chi) di essere il più possibile intercambiabile con il PDL-Lega, con la conseguenza, tra l’altro, di rafforzare elementi di comunanza (come scrive Salvati) tra i quali, per esempio, lo scambio di convenevoli e diplomatici alle rispettive feste (ma chi del PD va a Pontida?), oppure deve marcare le proprie differenze? Esiste una qualche ipotesi consolidata di teoria politica o di opinione pubblica che porta evidenze che sia più facile conquistare consensi se si cerca di imitare il proprio avversario? Non mi sembra, mentre c’è in questo senso una forte propensione da parte della dirigenza del PD a ritenere tale posizione un assioma indiscutibile (che coincide, guarda caso, con i comportamenti più corrivi e meno faticosi).

Non si potrebbe invece almeno prendere in considerazione l’ipotesi opposta e cioè che sia vero il contrario? I mitici “delusi del berlusconismo” sarebbero davvero più invogliati a cambiare di campo se gli si offrisse una sorta di sottomarca del berlusconismo piuttosto che un prodotto diverso? Quello che sentiamo dire dai finiani, che pure sarebbe assurdo considerare “di sinistra”, ci fa pensare invece che chi si stacca da una posizione voglia un taglio netto e che il costo della rottura debba essere compensato da qualche nuova prospettiva.

L’ultima settimana del mese di agosto si chiude con il Grande Mercatone dell’Etica di Rimini, che quest’anno è dedicato non solo all’anima ma anche al cuore: “Anema e core ” al 100%, ma forse anche “money”, che poi è il vero “core business” della Compagnia delle Opere. Da cui la battuta che circola nei corridoi del Festival (che poi alla fine questi uomini di chiesa hanno la lingua bella lunga) che raccomanda ai partecipanti di tenersi lontani dal Tempio malatestiano, perché lì c’è un signore barbuto che scaccia i mercanti. La Presidentessa del Festival di Rimini si è lamentata che la stampa abbia dato l’impressione che il Festival sia a proposito del “potere” e dei “potenti”, mentre è tutt’altra cosa: umiltà, riservatezza, fischi ai potenti e osanna agli umili, niente truppe cammellate, non si parla d’interessi e soldi e potere ma solo di opere di bene, come abbiamo potuto vedere bene tutti.

Speriamo che l’estate finisca presto e che si apra un po’ di spazio per i poveri peccatori come me che guardano all’autunno e alla vendemmia come a un periodo più godereccio. Mi accontento di poco, meno sepolcri imbiancati e più guinguettes sulla Marna con valse musette e buon Beaujolais oppure qualche scampagnata dalle parti di Alba per dare un’occhiata alle vigne (i tartufi, dopo aver visto quelli ostentati da Kiwi Man Rotondi, mi sono venuti a uggia e per quest’anno ho deciso di non mangiarne).

 

PS. In limine si è presentato Walter Veltroni a dare lezioni di politica e soprattutto a spiegare come si vincono le elezioni (sic). Che Veltroni voglia rientrare nel gioco è comprensibile e legittimo, anche se forse tutti noi avremmo il diritto di vedere qualche faccia nuova e sentire qualche idea diversa da quelle già sperimentate senza successo. Ma il punto è che uno che vuole rientrare deve pensare bene alla prima cosa che dice, altrimenti rischia di dover fare un altro giro. Veltroni che si rivolge “al Paese”, fa ridere almeno la metà di questo paese (per non dire di quanti dell’altra metà). Quale modello di narcisismo inflazionario spinge un comunicatore a usare un incipit con un rinculo così potente? Se avesse detto più modestamente “mi rivolgo ai miei elettori”, si sarebbe evitato un bel po’ di lazzi e avrebbe detto una cosa più esatta. Che avrebbe giustificato anche l’altra frase infelice sui 14 milioni di voti, che sarebbe stato bene tenere in sordina, perché sappiamo benissimo che nel sistema in cui viviamo i voti possono essere anche tantissimi, ma se non c’è quel famoso “più uno” che fa vincere, è meglio dimenticarli, perché fa male pensare allo spreco: quei consensi di allora non sono come una scatola di Magnum Classic che tieni del freezer e quando capita l’occasione te li mangi. Potrebbero essersi già sciolti al sole d’Agosto.

 

Guido Martinotti

 

 

 

 

 

 

 

 


 



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