31 agosto 2010

ARRIVANO I FASCISTI A PALAZZO MARINO


 

Il combinato disposto delle divisioni socialiste, (caratterizzati dal prevalere dei massimalisti rivoluzionari e dalla scissione comunista), e della supina adesione della borghesia democratica milanese, in primis il Corriere, alle azioni violente fasciste, portarono allo scioglimento del consiglio comunale, nonostante anche le elezioni politiche del ’21 fossero in città vinte dai socialisti.

In occasione delle elezioni per il rinnovo della Camera del maggio ’21, si vide infatti che il clima era mutato rispetto al già turbolento 1919. Se il programma dei conservatori uniti nel Fronte patriottico di due anni prima poteva in qualche modo definirsi riformatore, ora il Blocco era animato dai propositi nazionalisti e fascisti, anche se a guidare il blocco a Milano era un democratico come Gasparotto.

Tanto strepitio contro la “mortificazione bolscevica” operata dal sindaco Filippetti diede pochi frutti, almeno quando i bloccardi decidevano di seguire le vie legali e democratiche: il PSI confermò i suoi 14 deputati e il PPI ne elesse 6. I sette deputati del blocco nei collegi, ora unificati, di Milano e di Pavia, dovevano tutto ai fascisti, come si poté agevolmente vedere nei più di 70.000 voti personali di Mussolini, in testa assai ai suoi alleati moderati.

Ma ora l’opposizione aveva buon gioco a criticare il deficit comunale, salito, nelle previsioni per il 1921, a 240 milioni. Cifre alla mano, il liberale Cardani mostrava come fosse aumentato il numero di funzionari comunali, e di conseguenza le spese e le tasse, senza che l’efficienza della macchina comunale mostrasse segni apprezzabili di miglioramento. Quindi chiese un’inchiesta sulla gestione dell’Azienda dei consumi, a cui si accodarono anche i consiglieri che da socialisti erano diventati comunisti, fondando un gruppo autonomo in Consiglio e guidati da Ernesto Schiavello.

“Vogliamo – disse Schiavello – che tutti vedano chiaro nelle nostre azioni perché sappiamo di poter sopportare qualunque prova. Come bene dicono tutti nostri compagni, che si aprano porte e finestre acciocché non vi siano sospetti specie quando trattasi del pubblico danaro, vogliamo, socialisti e comunisti, che chiunque possa indagare, veder chiaro e convincersi della nostra rettitudine. Chiediamo quindi che l’inchiesta compunta con rapporti della minoranza borghese abbia pieni poteri: colpisca inesorabilmente se vi è da colpire. Non temo che la verità venga fuori trionfante, e siamo sicuri del trionfo della nostra verità”1.

Il consigliere Marangoni difese l’Azienda per i consumi, dicendosi convinto che la campagna contro di essa aveva solo uno scopo politico. Quando poi, nel giugno del ’21, ancora il bilancio non era stato presentato, Ranelletti ritornò all’attacco, accusando la giunta di non essere in grado di amministrare e di correre rapidamente verso lo sfacelo, provocato dall’aumento delle spese legali, dagli alti salari dei funzionari e degli impiegati, della disorganizzazione dei servizi pubblici. D’altro canto, l’opposizione, quella dei comunisti, riteneva troppo tiepidi (“democraticoide” come disse Schiavello) l’azione della giunta. Dopo tutto secondo i comunisti lo sfondamento del bilancio non aveva ancora raggiunto a Milano quei 500 milioni di tanti altri comuni, ragion per cui vi sarebbero state ancora opere da fare, soprattutto nell’edilizia popolare. In ogni modo, per comunisti, i debiti del Comune erano piccola cosa di fronte allo sfascio dello Stato borghese che avrebbe approssimato la vicina rivoluzione. Benché poi i comunisti dichiarassero di approvare il bilancio, essi affermavano prossima la fine dell’amministrazione comunale. Il ragionier Ausoni, assessore alle Finanze, denunciato a tratti caldi dal “Corriere della Sera” come scialacquatore di pubblico denaro si difese con questi argomenti: “attenuare, nei limiti delle proprie attribuzioni, la disoccupazione che dilaga impressionante. Provvedimento, d’altronde, in perfetta armonia col classico concetto dell’economia borghese, in quanto il lavoro era volto all’esecuzione di opere redditizie”.

Naturalmente l’opposizione liberale aveva ben salde radici anche a Roma: al Senato non passava giorno senza che il direttore del Corriere Albertini non accusasse di malversazione la giunta, mente i liberali milanesi facevano pressione su deputati e sui ministri perché venissero limitate le distribuzioni di risorse dal centro al Comune. Così avvenne per esempio quando la giunta chiese un prestito alla Cassa depositi: “Mi consta in modo concreto – denunciò Caldara – che un’associazione politica cittadina ha scritto alla cassa di risparmio contro ogni eventuale operazione di credito al nostro Comune e che qualche giornalista ha formulato alla stessa cassa minacce e oscuri attacchi nel caso che essa facesse sovvenzione al comune. La cosa è dolorosa e vuol essere denunciata anche nell’interesse della Cassa di Risparmio”. Seguì un novo tumulto (ormai si trattava di accadimenti quotidiani) e il giorno dopo la minoranza negò il proprio voto al Bilancio.

In tale clima di ostruzionismo, tra i prestiti negati, la Giunta fu costretta, nel ’22, a presentare un piano di ristrutturazione dei bilanci comunali. Un mutamento che Filippetti spiegava con il cambiamento della situazione politica generale: non si era più ai tempi rivoluzionari del ’19-20, ora il proletario doveva assumere un “atteggiamento di difesa”. Solo che il programma fu pesantemente attaccato questa volta dai comunisti come Giuseppe Nardelli (che accusò la giunta di voler ridurre le paghe ai dipendenti e di non colpire le sacche di sfruttamento borghese) e Alfredo Interlenghi, per il quale Filippetti, difendendo il bilancio, aveva acquisito la mentalità delle amministrazioni borghesi. Un altro oppositore della Giunta, benché questo non fosse il suo ruolo, era il prefetto Lusignoli che, fin dall’insediamento di Filippetti, non aveva mancato critiche espresse pubblicamente nei confronti del sindaco, intervenendo, fin dove possibile, per censurare le frasi o i passaggi dei suoi discorsi. La strategia di Lusignoli, in questo certamente appoggiato dal governo, consisteva nel cercare la provocazione con la Giunta: diede l’ordine di punire i tranvieri per la sospensione del lavoro il 1° maggio 1921, una consuetudine che a Milano risaliva al 1904. Le diatribe potevano nascere anche su questioni apparentemente piccine, ma simbolicamente rilevanti, come quando un vigile intimò a un tassista di togliere dalla sua vettura la bandierina tricolore, e Lusignoli, informato dell’accaduto, accusò pubblicamente l’assessore Fiori di avere emanato tali direttive.

La Giunta decise di non reagire alle provocazioni di Lusignoli, limitandosi a esprimere riprovazione. Un comportamento che non piacque né ai comunisti, che avrebbe voluto uno sciopero generale di protesta e la denuncia di Lusignoli, né ai liberali, i quali ritenevano che, se il prefetto aveva veramente violato la legge e superato i propri limiti, andasse denunciato alle autorità civili. Ma i liberali stavano evidentemente con Lusignoli, se Ranelletti aggiunse poi che alla città, più che le critiche di Lusignoli, avevano fatto ben più male “la mala amministrazione, o ridurre il Comune nostro che era il più fiorente d’Italia in istato quasi fallimentare, col non pagare i fornitori, col non pagare i debiti neppure alle Opere Pie, e perfino col non pagare gli stipendi e i salari ai dipendenti dl Comune […] Il decoro e il buon nome di Milano sono offesi non dagli interventi del prefetto, ma dallo sgoverno fatto dalle Amministrazioni socialiste”.2

A tutti gli effetti, la situazione era drammatica: l’ospedale era creditore di dieci milioni, la Cassa depositi non aveva ancora inviato il prestito promesso. In città, gli scontri tra fascisti, socialisti e comunisti erano più intensi che mai, mentre pochi mesi prima, nel Teatro Diana, era esplosa una bomba piazzata dagli anarchici. Senza dire che all’arcivescovado, dopo la morte di Ferrari, era arrivato Achille Ratti, una figura che, come a scritto Giorgio Rumi “ha una sua idea della restituzione complessiva dell’Italia alla sua costituiva anima cattolica. Non comprende, e in definitiva non condivide, significati e valori del partito come luogo di organizzazione del consenso e come radicamento della democrazia nelle masse […] La sua industriosa Brianza gli aveva insegnato cosa possano fare l’organizzazione e la disciplina mentre la dialettica dei diversi rimane fuori dai suoi interessi […] Quando il vertice ecclesiale volge le spalle all’ipotesi della democrazia e dell’apertura alle grandi esperienze politico-culturali dell’età contemporanea […] lo scenario che si disegna passa piuttosto allo sviluppo delle competenze, alla professionalità, all’associazionismo corporativo, ai valori gerarchici. Rispetto al fascismo che avanza non c’è dubbio: la nuova ambrosianità che Ratti e Gemelli incarnano è senz’altro competitiva, in quanto non radialmente altra, e piuttosto figlia della stessa rinunzia”.3

I rapporti tra maggioranza e opposizione divennero incontrollabili però solo nell’estate del ’22. Le forze politiche prebelliche apparivano sempre più incapaci di proporre una politica autonoma e sempre più dipendenti dai nazionalisti e dai fascisti. I liberali milanesi, erano invitati da più parti in primis il Corriere a non avere più remore nei confronti di Mussolini e ad allearsi stabilmente con il suo partito.

Si doveva fornire di un’organizzazione permanente alla Fiera campionaria, sorta due anni prima su iniziativa di imprenditori e finanzieri. La Giunta voleva che la Fiera si costituisse a Ente autonomo in modo che vi fosse un controllo del Comune, mentre la minoranza appoggiava la proposta della Fiera come “ente morale”, per questo del tutto indipendente dal Comune. Dalla discussione accesa agli insulti, tra Marangoni e Ranelletti, il passo fu breve, tanto che quasi tutti i consiglieri della minoranza abbandonarono l’aula facendo mancare il numero legale. Pochi giorni dopo, a un’ennesima discussione sui bilanci comunali e di fronte agli attacchi violenti di Ranelletti e del nazionalista Arrigo Solmi, scoppiarono tafferugli tra i consiglieri e il nazionalista Alcide Frattini venne colpito. Si trattava di un nazionalista che si era da tempo schierato con il fascismo e che riuscì per pochi giorni ad alzarsi dalla sua modestissima statura e a farsi leader, in consiglio, di posizioni che all’esterno erano quelle dei fascisti, attorno alle quali egli aggregò i liberali e i radicali: “rimarremo seriamente al nostro posto – disse in Comune pochi giorni dopo la sua aggressione – nell’opera di epurazione anche, che sarà continuata senza tregua. A Milano siamo un po’ in ritardo ma gli avvenimenti camminano e non posso formulare l’augurio, in questa aula dove abbondano piccoli uomini incapaci, l’augurio cioè che presto l’amministrazione socialista, piovra di Milano industre e patriottica, sia spazzata, che sul balcone riconsacrato di Palazzo Marino sventoli per sempre la santa bandiera d’Italia”.4

Pochi giorni dopo il discorso di Frattini e vari discorsi sullo stesso tono del liberale Ranelletti, avvenne la destituzione manu miltari della giunta democraticamente eletta da parte dei fascisti, tra il plauso del “Corriere della Sera” e il tripudio di Luigi Albertini. Più che profetici, i discorsi di Frattini e di Ranelletti, mostravano come il liberalismo milanese avesse da tempo abbandonato autonomia e proposta ai fascisti, finendo per condividerne metodi e tattiche. Non è escluso che il colpo a Palazzo Marino fosse previsto da tempo, e che Frattini e Ranelletti avessero sentore di qualcosa, un sentore che poi, assai maldestramente, rivelarono a tutti. In quei giorni del resto si poté vedere un deputato di diverse legislature del partito che ancora qualcun chiamava “costituzionale”, un ex-ministro, appunto De Capitani, assaltare personalmente Palazzo Marino.

L’occasione per l’aggressione al Comune venne data in seguito al fallimento del grande sciopero legalitario, il 3 agosto 1922 il prefetto Lusignoli, non potendo accettare fino in fondo di lasciare fare ai fascisti ciò che egli comunque intimamente desiderava, fece intensificare la sorveglianza a Palazzo Marino anche se, scrisse al Ministro degli Interni dell’agonizzante governo Facta, “lo stato d’animo della cittadinanza è completamente favorevole ai fascisti e non nascondo che mal tollererebbero un’azione a fondo contro i fascisti”. Nel tardo pomeriggio del 3 agosto, la folla tumultuante, in apparenza spontanea, in realtà guidata dai fascisti e nazionalisti e ai loro assistenti liberali e radicali, iniziò a premere alle porte di Palazzo Marino. La polizia lasciò entrare la canea, le sale del Comune furono occupate, D’Annunzio (casualmente?) a Milano fu chiamato dalle camicie nere perché pronunciasse un discorso dal balcone di Palazzo Marino. Il poeta-vate, non sempre neppure in quel periodo d’accordo con la strategia fascista e con Mussolini, svolse la bisogna, mentre il procuratore generale Antonio Raimondi ritenne che tutto quanto era accaduto non costituiva motivo di reato! Il 27 agosto il decreto reale giustificò e legittimò il colpo di mano contro la giunta democraticamente eletta, motivandolo con il fatto che “questo enorme stato di cose [cioè la gestione Filippetti] ha creato nella cittadinanza un risentimento che ha veduto la sua esplosione nei gravissimi incidenti del 3 agosto; e poi la calma, che si è ristabilita per l’abbandono di fatto delle funzioni da parte degli amministratori, sarebbe seriamente compromessa, è indispensabile, per grave ragioni di ordine pubblico, lo scioglimento del Consiglio comunale”.5

 

Walter Marossi

 

 

 

 

 

 

1 Cit. in F. Nasi, 1899-1926, cit.,p. 94.

2 ibidem, p. 98.

3 G. Rumi, I cattolici, “i migliori fra i cittadini”, cit, p. 60-61.

4 Cit. in F. Nasi, 1899-1926, cit,. p. 101.

5 M. Punzo, La giunta Caldara, cit. e più generale A. Lyttleton, La conquista del potere. Il fascismo dal 1919 al 1929, Bari 1974.

 


 



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