8 giugno 2010

LA LEZIONE DI TOBAGI PER MILANO E L’ITALIA


In una giornata di pioggia milanese di trent’anni fa, era il 28 maggio 1980, nell’attonita redazione del Corriere si sente il vice capocronista Mantica che esclama in lacrime: “Nulla da fare, Walter è morto”. Quel Walter era Tobagi, trentatré anni, milanese d’adozione, giornalista del Corriere, storico e presidente del sindacato dei giornalisti lombardi. Fu assassinato da una semi-sconosciuta formazione terroristica, la “Brigata XXVIII marzo”, in quello che può essere definito un annus horribilis per l’Italia e Milano in particolare.

Nel mese di marzo erano stati uccisi nell’arco di quattro giorni tre magistrati: Giacumbi a Palermo, Minervini a Roma e Guido Galli all’Università Statale di Milano, senza contare, l’anno precedente, la morte di Alessandrini, e quella, seppur non legata al terrorismo, di Ambrosoli. “Perché lui?” si chiese in un famoso articolo Leo Valiani. Perché Tobagi?

Il suo assassinio sembra assecondare in pieno il detto terroristico “tanto peggio, tanto meglio”. Il terrorismo temeva chi ha saputo promuovere il bene comune attraverso lo stimolo delle coscienze e la ricerca della verità come strumento di partecipazione attiva, e per questo puntava a eliminarlo. Lo stile di Tobagi si può riassumere in sua felice massima con cui spiegava il senso del suo mestiere di giornalista: “Voler capire e poter spiegare”. Per capire, Tobagi si muoveva con la passione del cronista che era insita in lui sin dai tempi del liceo Parini quando era una delle firme del mitico giornalino La Zanzara. Era “un cronista buono”, come lo definì il direttore del Corriere Franco Di Bella, il giorno dopo il suo assassinio.

Come ricorda Benedetta Tobagi, figlia di Walter, autrice del libro su suo padre “Come mi batte forte il tuo cuore”, gli aggettivi che più si ripetono quando si parla di lui sono “socialista” e “cattolico”, ma forse per capire fino in fondo la lezione di Tobagi a trent’anni dalla morte bisognerebbe andare oltre le definizioni precostituite. Probabilmente il suo più grande merito, è stato quello di essere una persona curiosa. Nel senso di saper fondere la rigorosità dello studioso con l’intraprendenza del cronista. Amava studiare il suo paese che attraversava uno dei suoi momenti più difficili del secolo scorso, e interrogarsi sulle problematiche più spinose.

In primis la politica, certo, ma anche il sindacato (su cui pubblicò, oltre che numerosi articoli ben due saggi), il mondo dei giovani, il terrorismo, che Tobagi provava a combattere con le armi dell’informazione, della cultura e dell’analisi storica. Non a caso è rimasto famoso il suo articolo uscito sul Corriere nell’aprile del 1980, un mese prima di essere assassinato, dal titolo “Non sono samurai invincibili”. Si parlava di Brigate Rosse, che secondo Tobagi “si sforzano di dimostrare una forza superiore a quella reale” e del loro rapporto con la fabbrica e con il sindacato. Nell’articolo non vi è traccia di un approccio ideologico ma la volontà di “preoccuparsi delle ragioni individuali, magari psicologiche” che portano Tobagi a chiedersi “Come mai certi lavoratori hanno fatto il salto terribile? Qual è la molla decisiva?”.

Tra gli articoli di Tobagi poi, spiccano quelli sulla nostra città, Milano, in cui si trasferì con la sua famiglia a sette anni nel 1955, e che con il passare degli anni divenne anche la sua città. Scrisse in una lettera che “la fortuna m’ha portato dall’Umbria a Milano” e dopo l’inevitabile spaesamento iniziale si buttò con entusiasmo nella sfida dell’integrazione arrivando a instaurare una forte sintonia con la città da cui, scriveva, “si vede tutta l’Italia”.

Oggi il suo ricordo è vivo, e Milano con tutta l’Italia deve sforzarsi ad accrescerlo. Probabilmente la sua memoria è forte perché i suoi valori, quelli di un sincero riformista, hanno vinto contro il terrorismo e ci conducono nella (faticosa) costruzione dell’Italia del futuro. Ricordare Tobagi serve a ricordare a noi stessi l’importanza di alcuni concetti come il senso di responsabilità, la solidarietà civile, la libertà di indagine e l’onestà intellettuale.

Serve anche a riscoprire il senso educativo di alcuni scritti: ” L’impegno di chi entrerà tra non molto nella società del lavoro è proprio questo. Stabilire un’effettiva giustizia nell’interno del nostro sistema”.

Con queste parole: “Speriamo che i giornali continuino liberamente a pubblicare notizie. E’ sempre il primo modo di fare cultura”, Tobagi è ancora in grado, soprattutto oggi, di parlare a tutto il mondo della stampa a tal punto che, nel ricordalo, Ferruccio de Bortoli si è chiesto ” Saremo degni di raccogliere il testimone che ci ha lasciato Walter?”. Per cominciare sforziamoci di ricordare la sua lezione.

 

Martino Liva



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