17 maggio 2010

ALLA FIERA DELL’EST: L’ITALIA SI RACCONTA A SHANGHAI 2010


(Nostra corrispondenza) Le immagini dell’esposizione universale cinese, inaugurata il primo maggio scorso, colonizzano ogni superficie libera della megalopoli di Shanghai, dalle insegne pubblicitarie alle vetrine di negozi, alberghi e ristoranti sino alle maniglie dei vagoni della modernissima rete metropolitana. Per accogliere i settanta milioni di visitatori previsti nei sei mesi di apertura, l’amministrazione cittadina ha affrontato costi di riqualificazione urbana che hanno ampiamente superato quelli richiesti per le Olimpiadi di Pechino del 2008, sgombrando con piglio dirigista un’enorme area a cavallo del fiume Huangpu e distendendo una parata di oltre duecento padiglioni di nazioni, municipalità e aziende su entrambe le sue rive.

Di fronte a un dispiego di risorse così impressionante, che pare stridere con il tema dell’evento – “Better City, Better Life” – che dovrebbe affrontare la spinosa questione della qualità della vita su un pianeta dove oltre la metà della popolazione abita nelle città, il primo impatto con il sito espositivo dell’Expo cinese è visivamente sconcertante. Il comprensibile desiderio di tracciare un sintetico percorso interpretativo è immediatamente frenato dall’eterogeneità delle proposte che caratterizzano le cinque aree in cui l’evento è suddiviso. Come in realtà caratteristico di tutte le esposizioni universali sin dalla memorabile Great Exhibition londinese del 1851, anche l’Expo 2010 racchiude varie anime e si presta a diverse modalità di fruizione. Ci vorranno più giorni per orientarsi in questo vivace labirinto e riuscire a leggere alcuni dei possibili significati di un tale spazio plurale e multicentrico, andando oltre lo smaccato ed esultante branding di Shanghai e della Cina, protagonista indiscussa del Terzo Millennio.

La ricerca comincia al Gate 8, l’entrata dalla quale si accede all’area dedicata all’Europa, all’Africa e alle Americhe. Non c’è ressa, nonostante l’animato viavai che fluisce fra i tornelli dell’ingresso. Pochi stranieri fra i visitatori, che sono per lo più cinesi. Oltre alle famiglie con i bambini che stringono fra le braccia il pupazzo Haibao color “puffo”, mascotte dell’evento, si osservano moltissime persone anziane, allegre e curiose nonostante la stanchezza, donne che trotterellano sotto colorati ombrellini e vari disabili in sedia a rotelle, in compagnia di cordiali assistenti. La Cina di ogni estrazione, cultura ed età accorre a vedere come si racconta il resto del mondo a una manifestazione senza dubbio di portata globale, ma che in queste sue prime battute sembrerebbe rivolta soprattutto ai cittadini cinesi. L’intento promozionale e la dimensione dell’intrattenimento rischiano peraltro di mortificare la serietà del tema dell’eco-sostenibilità urbana. I padiglioni visitati appaiono perlopiù come una serie di stand finalizzati al marketing delle rispettive nazioni, sfiorando spesso l’ovvietà nel citare quanto non solo è già noto, ma forse già superato, in un contesto che dovrebbe invece lanciare una serie di provocazioni per un futuro urbano che si presenta a dir poco problematico.

Povera l’immagine complessiva che si ricava dell’Africa, anche dello stesso Sudafrica, nonostante il crogiolo di culture e la sua spinta propulsiva. Ma neanche l’Europa sfugge all’effetto luna park. Davanti al padiglione britannico – un’interessante realizzazione simile a un gigantesco soffione, la cui lanugine è composta da sessantamila tubi acrilici che racchiudono semi provenienti dalla Millennium Seed Bank dei Kew Gardens che verranno donati a scolaresche cinesi alla fine dell’Expo – sfilano due attori, un uomo anziano e una donna dalla chioma ossigenata, con un cagnolino di legno al guinzaglio, giacca scura, guanti e bombetta lui, vestitino di seta, cappellino e guanti rossi lei, icone di un essere inglesi anacronistico, lontano anni luce dalla complessità multiculturale della Gran Bretagna di oggi, che tuttavia suscitano l’entusiasmo dei visitatori che si accalcano per fotografarli, senza ironia.

Anche il padiglione italiano è emblematico di questo viaggio a tratti bizzarramente a ritroso nel tempo, che pare costruito per vendere a potenziali investitori e turisti un marchio nazionale rassicurante, in totale contrasto con l’irrefrenabile vitalità dell’odierna Cina e della stessa città di Shanghai, collegata all’aeroporto di Pudong da un trenino futuristico che supera in pochi minuti la velocità di 400 km/h. La vera novità della costruzione, progettata da Giampaolo Imbrighi, è rappresentata soprattutto dall’utilizzo del cemento trasparente di Italcementi, un nuovo materiale che lascia parzialmente filtrare la luce. Il visitatore, tuttavia, non riceve spiegazioni sui possibili utilizzi di questa innovazione o delle altre soluzioni adottate all’insegna dell’eco-compatibilità, ad es. il progetto illuminotecnico, per trovarsi invece catapultato in un mondo sottosopra. Significativo di quest’effetto di straniamento il soffitto di uno degli ambienti del padiglione, da cui pende, sopra un maestoso ulivo, un campo di grano con papaveri. Sembra peraltro che l’abile scenografia abbia riscosso grande successo fra il pubblico, anche se permane la perplessità che una rappresentazione dell’Italia più sensibile, magari raccolta in modo partecipativo fra i cittadini comuni, si sarebbe rivelata più adeguata per affrontare le contraddizioni del presente e del futuro, anche in vista dell’Expo 2015.

 

Maria Cristina Paganoni



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