19 aprile 2010

IL 25 APRILE NON È UN RITO


Appartengo a quella generazione neppure sfiorata dalla guerra, ma neppure troppo lontana dalla guerra, figlia di madri e padri che la guerra avevano visto, conosciuto, sofferto e che quindi sapevano dire per esperienza propria, diretta, non solo della guerra, ma anche del fascismo e dell’antifascismo, della Resistenza e della Liberazione. Ne potevano parlare. Il mio primo incontro con quella storia fu grazie alla maestra delle elementari che per compito mi diede quello di trascrivere sul quaderno quanto si poteva leggere sulle lapidi che nel quartiere ricordavano i morti partigiani. Il quartiere era quello della “Mac Mahon”, via Mac Mahon, la via della Gilda testoriana. Le lapidi si vedevano e si vedono sui muri delle case popolari che si affacciano, sull’altro lato, attorno a piazza Prealpi, che a quei tempi si indicava ancora come”Marioasso”, così in una sola parola, che racchiudeva due nomi propri logorati dall’uso, senza più significato. Mi pare che Mario Asso fosse un fascista, eroe dell’aviazione. A quella passeggiata con mia madre tra le memorie dell’antifascismo ripenso di frequente: la mia educazione era cominciata presto. Non ci sono lapidi che ricordano caduti partigiani dove è nato, in Sicilia, il mio amico Giuseppe, che di anni non ne ha neppure trenta, i cui nonni hanno fatto la guerra sul fronte francese e in Africa e i cui genitori hanno conosciuto attraverso loro quelle tragedie.

Chiedo a Giuseppe se ha partecipato ad altre manifestazioni per il 25 Aprile e se parteciperà alla prossima. Mi risponde che fino ai diciott’anni, in Sicilia, celebrazioni non ne aveva viste, che cominciò a parteciparvi a Roma, da universitario, e che domenica sarà in piazza del Duomo. “Della lotta di Liberazione ho appreso soprattutto dai libri, a scuola, perché gli insegnanti ce ne parlavano. A casa mi era più facile sentir nominare don Sturzo, perché era di Caltagirone, siciliano come noi, e perchè mio padre faceva politica ed era di area cristiano sociale. Da noi la Resistenza era geograficamente lontana, una cosa del Nord. Al contrario di tanti amici di Milano non avevo nonni che potevano testimoniare e raccontare… Poi quella storia mi è entrata dentro, grazie alle letture appunto e alle mie prime esperienze a Roma. Quella storia continua a rimanermi dentro e credo che onorare quei momenti sia un dovere”.

Ci si dice sempre del rischio che la celebrazione diventi un “rito”, una consuetudine stanca, che parla poco ai giovani? Credo che anche i “riti” servano per salvare la memoria… “Ma io sono orgoglioso di quella nostra stagione e quindi non temo affatto di partecipare a un rito. Il ricordo bisogna tenerlo vivo. Anche una passeggiata in mezzo a tante persone è un modo per ricordare. Mi piace ritrovarmi in un ambiente che sento familiare, qualcosa che mi appartiene e al quale appartengo. E’ un po’ ritrovare la comunità e la solidarietà della comunità”. Mi colpiscono alcune tue parole, come passeggiata, ambiente famigliare, comunità, solidarietà, perchè non le sento retoriche.

“Ma perché dovrebbe esserci retorica nel ricordare l’atto di nascita di un paese, finalmente nella democrazia. La celebrazione è una festa”. Come la Liberazione fu una festa. Ma poi senza la politica, e direi senza la politica giusta, anche le certezze si consumano. E’ significativo che il governatore Formigoni non si senta in dovere di partecipare e che una settimana prima i neofascisti organizzino a Milano le loro messe per Mussolini. Sedici anni fa, alla prima vittoria di Berlusconi, il 25 Aprile fu una grande giornata di battaglia politica. Con la Lega in corteo. Sotto una pioggia torrenziale. Quanta politica c’è nella tua festa?

“Ma io la politica di mezzo ce la metto sempre. Non riuscirei a vivere prescindendo dalla politica. Ma ovviamente contano nella mia formazione una famiglia dove di politica sentivo sempre discutere e alcune esperienze personali. Capisco che nella confusione d’oggi molti se ne allontanino. E’ successo anche prima per molti giovani come me o poco più grandi di me, quando è crollato il muro di Berlino, quando è finito il Pci, quando è scoppiata tangentopoli. Per molti il riferimento culturale è diventato Drive In. Non per tutti, fortunatamente”. Giuseppe mi ricorda intanto che il settanta per cento degli italiani si informa solo dalla televisione. Giovanni Sartori, il politologo, giorni fa ricordava che il settanta per cento degli italiani non sa più leggere o non capisce che cosa legge. La nostra scuola e le lapidi di via Mac Mahon (e le nostre famiglie) ci hanno salvato dalla schiera degli analfabeti televisivi e degli analfabeti di ritorno.

E allora? Allora ci saremo. Mi rincuora in fondo quel disincanto nel definire la manifestazione: una “passeggiata”. Una festa per il ricordo, per chi pensa ancora che in quei lontani giorni si sia fondata la nostra Repubblica. La memoria serve contro chi cerca di scassarla e una “passeggiata” il compito che non può avere: di un voto, di una consultazione elettorale.

Oreste Pivetta



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